Il passaporto di Regeni usato dagli egiziani per depistare
In un audio il proprietario della casa: il documento nelle mani di un militare prima della perquisizione
La prova del depistaggio ordito dai servizi di sicurezza egiziani per attribuire la sparizione e la morte di Giulio Regeni a una banda di criminali comuni sta nella ricomparsa del passaporto della vittima. E nel racconto di una persona registrato da un testimone che dice di averlo visto nelle mani di un poliziotto prima della perquisizione nella casa alla periferia del Cairo in cui sarebbe stato ufficialmente ritrovato. Una messinscena quasi grossolana, organizzata due mesi dopo il sequestro e l’omicidio del ricercatore friulano, che doveva servire ad allontanare i sospetti dai militari egiziani e invece è diventato uno degli elementi d’accusa contro i quattro finiti sotto processo a Roma.
Nel dibattimento davanti alla Corte d’assise, dove gli imputati continuano ad essere dei fantasmi, il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco ha chiesto di produrre un file audio dov’è incisa la conversazione tra il testimone Z (la cui identità è tenuta per ora riservata, ma è tra le persone chiamate a deporre in aula) e il proprietario dell’appartamento perquisito la sera del 24 marzo 2016, dopo la sparatoria in cui furono uccisi cinque presunti appartenenti a una gang di rapinatori. Compreso il capobanda, Tarek Saad Abdel Fatah. Che il giorno prima era stato proprio in quella casa dove abitavano sua sorella e il cognato Jamal.
Nella registrazione del colloquio avvenuto qualche tempo dopo, Jamal racconta a Z l’irruzione dell forze di sicurezza egiziane comandate da un colonnello, poi identificato dai carabinieri del Ros in Mahmud Hendy. «L’ufficiale ha avanzato verso di me tenendo in mano un passaporto — racconta Jamal — (...) Mentre era ancora fermo con me nel salone di casa, mi mostra all’improvviso un passaporto, chiedendomi se lo conoscevo. Ho risposto negativamente e ho chiesto cosa fosse... Allora lui ha detto “Questo è il passaporto di Regeni, la vittima uccisa, il cui assassino è Tarek, insieme all’organizzazione criminale”. Ho risposto “Posso assicurarvi che i miei cognati non uccidono persone, si danno alla truffa ma nient’altro».
Jamal sostiene che poi il colonnello registrò a sua volta una sorta di interrogatorio dove voleva fargli confermare che il passaporto di Regeni era stato trovato in quella casa insieme ad altri oggetti rubati da Tarek, e ogni volta che lui non rispondeva nel modo a lui gradito il militare lo faceva ripetere. Per l’accusa questo colloquio è la conferma del depistaggio, ma gli avvocati d’ufficio dei quattro imputati si oppongono alla sua acquisizione. La corte deciderà nelle prossime udienze, ma intanto ieri ha ascoltato il colonnello del Ros dei carabinieri Onofrio Panebianco, secondo il quale non ci sono dubbi che quello della banda criminale fosse una messinscena. Oltre al fatto che il giorno del sequestro di Regeni Tarek si trovava a cento chilometri di distanza, dai tabulati telefonici risultano contatti diretti tra il colonnello Hendy e il suo collega Athar Kamel, uno degli imputati che si occupava delle indagini sulla morte del ricercatore. E tra gli oggetti che la polizia egiziana mostrò per attribuire l’omicidio alla banda, solo il passaporto di Giulio e due tesserini universitari erano suoi, tutto il resto no.
Un depistaggio con la regia dei militari egiziani, che l’accusa unisce alla cancellazione delle immagini delle telecamere della metropolitana nei minuti in cui Regeni la prese per l’ultima volta, la sera del 25 gennaio 2016.