Corriere della Sera

«Se fossi stato di sinistra avrei avuto una carriera più facile Le voci su Mussolini mio papà? Ho fatto i conti, non tornano»

Bruno Vespa compie 80 anni: «La data del mio ritiro la deciderà il Padreterno»

- di Tommaso Labate

Bruno Vespa, lunedì saranno ottant’anni. Qualcuno si starà chiedendo: quando si ritira? «Il giornalism­o si fa con la testa, che ancora funziona bene. Il ritiro lo deciderà il mio editore di riferiment­o: il Padreterno».

Trent’anni fa disse che il suo editore di riferiment­o era la Democrazia cristiana. Pentito?

«Era un’ovvietà, l’editore è il Parlamento. Ma anche alla Bbc, in Francia o in Spagna i dirigenti non li porta la cicogna».

Lei è rancoroso?

«Macché».

Vendicativ­o?

«Non ho mai agevolato una persona a danno di un’altra».

Rimpianti?

«Non lo si può chiamare rimpianto perché mi è andata benissimo. Ma sono convinto che, se fossi stato di sinistra, la mia carriera sarebbe stata più agevole. Per esempio, non avrebbero ridimensio­nato o cercato di chiudere Porta a porta».

Ha la fama di piantagran­e?

«Nel 1992, da direttore del Tg1, fui il primo a dare la notizia dell’avviso di garanzia a Craxi. La notizia era nell’aria, lo chiamai per chiedergli una conferma, lui iniziò a urlare al telefono che era una mascalzona­ta. Gli risposi, bluffando, che stava per scriverlo l’ansa. Poco dopo richiama: “L’ansa non scrive nulla!”. Tg3 e Tg2 tacquero. Diedi la notizia e l’ansa mi venne dietro, citando il Tg1. Per fortuna la notizia era vera».

Se non è di sinistra, allora è di destra?

«Sono un moderato. E se mi chiede che cosa s’intende per moderato le rispondo che sono decenni che mio figlio Alessandro ogni volta mi chiede per chi ho votato. Non l’ha mai scoperto».

Dicono di lei che è il consulente occulto di Giorgia Meloni per la comunicazi­one.

«È ridicolo anche solo pensarlo. Nella Prima repubblica, al contrario di tantissimi altri colleghi, non ho mai partecipat­o a riunioni politiche e mai incontrato in privato un solo esponente politico. Tranne una volta, Giulio Andreotti. Volevano impormi al Tg1 la nomina di una caporedatt­rice di scarso valore dicendo che la voleva il presidente del Consiglio. Andai a Palazzo Chigi per chiedergli se era vero, Andreotti non ne sapeva nulla».

Ha mai litigato col potere?

«Nel 1972, governo Andreotti-malagodi, congresso del Partito liberale. Malagodi arriva prestissim­o e dice alla mia regista di non inquadrare le minoranze. Intervengo io: “Onorevole, quando mi assumerà lei, faremo come dice lei. Nel frattempo…”. Venne fuori un servizio con tantissimo spazio per le minoranze. Ebbi poi un forte contrasto col Quirinale all’insaputa del povero Leone e poi ci fu la lite con Mariano Rumor, che poverino non c’entrava nulla: arrivato a Fiumicino, il suo portavoce venne con delle domande scritte. Mi tolsi dall’inquadratu­ra, montai le risposte di Rumor e uscì fuori una schifezza che non aveva capo né coda. Lo stesso Rumor si scusò. Ma fino al ’76 non mi affidarono mai servizi sulla Dc».

Lei viene da una famiglia democristi­ana?

«I miei genitori votavano per la Dc».

Che lavoro facevano?

«Papà rappresent­ante di medicinali, mamma maestra elementare. Si sposarono il 24 luglio 1943. Con gran tempismo, direi».

Il giorno prima della destituzio­ne di Mussolini.

«Il viaggio di nozze durò un giorno, il tempo di andare e tornare da Rivisondol­i. L’albergo era stato bombardato».

La detenzione di Mussolini a Campo Imperatore alimenta ancora oggi la storia secondo cui lei è figlio del Duce, Vespa.

«Non tornano i conti. Mia madre andò a insegnare ad Assergi, ultimo paese prima della funivia per Campo Imperatore, dove avevano mandato Mussolini, solo nel 1949. Quando “papà” (sorride, ndr) era già morto da qualche anno».

Non sembra infastidit­o dalla diceria.

«Non lo sono. Anzi, mi fa sorridere. A mio fratello Stefano, invece, questa cosa lo faceva imbestiali­re».

Dove e come nasce questa storia?

«Dove non saprei. Come boh, forse perché somiglio un po’ a Mussolini».

La sua infanzia?

«Mai andato all’asilo o alla scuola materna. Direttamen­te alle elementari, a 5 anni».

Quando ha iniziato a lavorare?

«L’anzianità di servizio Rai risale al primo settembre 1962, facevo servizi per la Radio regionale. L’aquila credo abbia il tasso di consumo di musica classica più alto al mondo per numero di abitanti, da lì passavano tutti i più grandi, che ho intervista­to: Rubinstein, Benedetti Michelange­li, Rostropovi­c... Quando venne Svjatoslav Richter, era la sua prima volta in Occidente, scomparve poco prima del concerto. Iniziarono a urlare che l’aveva preso la Cia; lo trovammo incantato di fronte alla facciata rinascimen­tale della Basilica di San Bernardino. Prima ancora, a sedici anni, avevo iniziato a fare corrispond­enze dall’aquila per il Tempo».

Poi arrivò il mitico concorsone Rai.

«Nel 1968. Ero talmente spaesato che a Piazzale Clodio chiesi a un passante dove fosse viale Mazzini».

Si classificò primo. Chi altro c’era?

«Paolo Frajese, Angela Buttiglion­e, Bruno Pizzul, Nuccio Fava. Mi assegnaron­o al telegiorna­le. Alla prima telecronac­a, alla regata delle Repubblich­e marinare di Pisa, Tito Stagno mi accompagnò perché non si fidavano a mandare da solo uno così giovane. Mi insegnò due cose: quando sei seduto metti la giacca sotto il sedere; e poi, dai mance laute ai camerieri perché da te se lo aspettano».

Il potere visto da vicino: Aldo Moro, di cui annunciò il sequestro.

«La prima volta che lo incontrai al congresso Dc del 1976 gli dissi: “Lei è un grande mediatore”. Lui mi gelò: “Io non sono un mediatore, io rappresent­o posizioni politiche”. Mi sembrava fosse senza materia, te ne rendevi conto dandogli la mano. Quando mi dissero di correre in onda perché l’avevano sequestrat­o le Br, la prima cosa che pensai fu come avessero osato toccarlo».

Enrico Berlinguer, di cui raccontò i funerali.

«Feci la prima diretta tv da Botteghe Oscure per un comitato centrale del Partito comunista. Intervista­re Berlinguer era affascinan­te: padronanza assoluta di linguaggio, mai una contestazi­one a una domanda, mai un appunto. Solo che non faceva interviste in diretta: “Non mi gioco la carriera politica per un aggettivo sbagliato”».

Silvio Berlusconi, a cui fece firmare il contratto con gli italiani.

«La prima volta l’avevo incontrato nel ’91, a un convegno organizzat­o dal ministero delle Poste, io rappresent­avo la Rai e Gianni Letta Fininvest. La volta dopo lo rividi nella campagna elettorale del 1994, in una trasmissio­ne che facevo nel pomeriggio. Tutti facevano le prime serate, io ero stato confinato là».

Da chi?

«C’era la Rai dei Professori, l’aria che cambiava, la caccia all’uomo. Come un cretino, mi ero dimesso dalla direzione del Tg1 senza paracadute».

Com’era stare in panchina per uno che era sempre stato titolare?

«La sera delle bombe a Roma del 1993, come un praticante alle prime armi, raggiunsi piazza San Giovanni convinto di trovarci Camillo Ruini. Poco dopo l’attentato alla Basilica, ci trovammo in quattro a vedere i danni delle bombe: il presidente della Repubblica Scalfaro, papa Wojtyla, il capo della polizia Parisi e io. Chiesi a Parisi che bombe fossero. Lui rispose con una frase che mi raggelò, riferita agli anni della strategia della tensione: “Queste bombe non sono come quelle. Queste non stabilizza­no”. Chiesi al direttore del Tg1 di poter fare il pezzo. Albino Longhi mi rispose: “Purché tu non sia inquadrato”».

Come riuscì a tornare in pista?

«Nel 1994 non mi fecero condurre la diretta per le elezioni ma mi spedirono al quartier generale di Forza Italia dove Berlusconi mi dette la prima intervista. Il giorno dopo i risultati, senza avvertire il direttore del Tg1 Demetrio Volcic, mi telefona Gianni Locatelli, direttore generale della Rai: “Bruno, in seconda serata c’è uno spettacolo di Renato Zero. Perché invece non organizzi una trasmissio­ne politica?” Andai da Berlusconi a via dell’anima, che si mise una risma di fogli bianchi sulle ginocchia: “Vede, sto già lavorando al programma di governo!”. Vennero lui, Fini, Bossi, Occhetto, tutti. Martinazzo­li annunciò in diretta che si sarebbe dimesso e non sarebbe più tornato a Roma. Ripartii da lì».

E Porta a porta come nasce?

«Ero a Palermo per seguire il processo Andreotti. Una sera, in albergo, vidi per caso uno spot della Rai che diceva “la seconda serata è… Carmen Lasorella!”. A quel punto vado dalla presidente Moratti e le dico: la Rai mi ha tolto dal Tg, dalla prima serata, da tutto. A questo punto, fate fare qualche seconda serata anche al sottoscrit­to. Ne diedero tre a Carmen e due a me. Sono passati ventotto anni. Porta a Porta sta ancora là».

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Edizione straordina­ria Bruno Vespa, allora 33enne giornalist­a del Tg1, annuncia in diretta il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse: è il 16 marzo 1978
 ?? ?? Volto tv Bruno Vespa, 80 anni lunedì prossimo, negli studi di «Porta a porta», in onda dal 1996 (Mondadori Portfolio)
Volto tv Bruno Vespa, 80 anni lunedì prossimo, negli studi di «Porta a porta», in onda dal 1996 (Mondadori Portfolio)

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