C’è posta per il Quirinale
Sofferenze, bisogni e speranze degli italiani nelle lettere indirizzate al Presidente
Il Quirinale è diventato da molti anni la vera casa degli italiani. Chi l’ha occupato ha saputo, nel tempo, consolidare l’idea che esista, in Italia, un luogo al riparo, o sopra, l’eterno, naturale, conflitto tra le opinioni e gli schieramenti. E che la politica possa, quando il ruolo lo richiede, essere un punto di riferimento comune. Credo che mai come negli ultimi decenni il Capo dello Stato abbia dovuto fronteggiare le diverse crisi del sistema politico fino al punto di ideare soluzioni che impedissero il precipitare di fenomeni di collasso che avrebbero compromesso il destino della nazione. Il primo governo tecnico della storia italiana nasce, non per caso, nei giorni frenetici della crisi di Tangentopoli e dell’esaurimento di una prima Repubblica alla quale non si è mai sostituita, checché se ne dica, una seconda.
Il primo «tecnico» fu Carlo Azeglio Ciampi che poi diventerà, a sua volta, Presidente della Repubblica. In seguito Dini, Monti, Draghi. Scelte necessarie quando il divampare di crisi morali o il rischio di crolli finanziari trovano la politica inerte o impreparata, o quando le urne, per effetto di leggi elettorali bislacche, non producono maggioranza e governabilità, e qualcuno deve impedire il collasso. Quei governi ideati dai Capi dello Stato hanno prodotto sempre maggioranze ampie e generato decisioni coraggiose. Tuttavia certamente sono stati la cartina al tornasole della difficoltà della politica di generare un assetto certo del sistema istituzionale.
Carica politica per eccellenza, quella di Presidente della Repubblica si è nel tempo definita anche come ultima istanza di un Paese bisognoso di certezze, rassicurazioni, garanzie. Uomini di parte, come ciascuno è, hanno saputo non esserlo, garantendo quel difficile e vitale carattere super partes che ha rafforzato questa istituzione e l’ha progressivamente fatta divenire il riferimento collettivo del Paese.
Le lettere che la storica Michela Ponzani ha raccolto nel suo libro Caro Presidente, ti scrivo, in uscita da Einaudi il 28 maggio, testimoniano proprio questo legame. Ponzani ha trascorso mesi negli archivi del Quirinale. E si è immersa in quelle tranches de vie racchiuse nelle missive che da ogni parte d’italia venivano vergate, imbustate, spedite, recapitate al Palazzo del Quirinale.
Ponzani le ha raccolte attorno a cinque macrotemi: le emergenze, a partire da quella dei terremoti, la violenza e il terrorismo, la fatica e il ruolo delle donne, l’idea di nazione, la disperazione degli ultimi.
La datazione del primo, introduttivo, capitolo fa riferimento a un momento di svolta nel rapporto tra Quirinale e Paese: la tragedia dell’irpinia del 1980.
Fino a quel momento il palazzo presidenziale era stato sempre a «una certa distanza» dai cittadini. Le traumatiche e ingiuste dimissioni di quel galantuomo di Giovanni Leone e la successiva elezione del partigiano Sandro Pertini cambiarono molto nel rapporto tra popolo e Capo dello Stato. L’invettiva sull’inefficienza dei soccorsi alle popolazioni colpite dal sisma che Sandro Pertini consegnò alle reti televisive fece capire che il diaframma che aveva accompagnato, ad esempio, le presidenze Gronchi e Saragat, certo meno condizionate dai media, stava cadendo e che il Quirinale si stava definendo ora come presidio di garanzia, non semplice istanza notarile di controfirma degli atti di governo. Luogo vicino, non lontano.
I cittadini cominciano a scrivere perché pensano che qualcuno li ascolti, che qualcuno possa fare qualcosa. Si sfogano, denunciano, implorano, cercano sostegno o, semplicemente, conforto.
Ponzani annota: «Lei mi sembra un padre, una persona onesta e comprensiva», scrive Teresa, una ragazza di quattordici anni al Presidente Pertini, raccontando di una madre costretta a continue gravidanze, che avrebbe tanto voluto «vedere liberata dall’aborto». La sua è una famiglia numerosa, molto povera, oppressa «in una casa di una camera e cucina [...] umida, con l’acqua che quando piove penetra nelle pareti e entra dalle finestre». Prevaricazioni, ignoranza, solitudine e amarezza. In questo ambiente malsano cresce Teresa. «Mia madre e mio padre stanno sempre a litigare [...] noi sorelle siamo delle ragazze gracili, una delle mie sorelle è malata di
cuore». «Chissà», si chiede, «come vivono quelle famiglie che hanno meno figli».
A Sergio Mattarella è invece una bambina di dodici anni a scrivere. Nelle sue parole c’è l’angoscia per un futuro di donna che deve aver decifrato nella vita di sua madre: «Per le donne che lavorano, tornare a casa vuol dire pulire, controllare che i figli abbiano fatto i compiti, cucinare e assicurarsi che l’abitazione non diventi un accumulo di panni e giochi che i bambini lasciano fuori posto».
Un ragazzo immigrato scrive invece a Giorgio Napolitano. Si chiama Gregoris: «Egregio Presidente, le scrivo per una cosa molto importante per me. Io non possiedo la cittadinanza italiana. Sono un ragazzo di 24 anni, sono venuto (o meglio la mia famiglia è venuta) in Italia ben quattordici anni fa dall’albania per una vita migliore». E poi conclude, con il senso dell’appartenenza a nuova patria: «Mi capita spesso di dare uno sguardo a ciò che ero quando sono nato e a ciò che sono ora diventato, un ragazzo come tutti gli altri, da quando ero piccolo dicevo che avrei vissuto tutta quanta questa vita in Italia... con tutto il rispetto per il mio Paese di origine, dico di non aver mai visto un posto più bello».
A Giovanni Leone, dieci giorni dopo il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, scrive
Motivazioni
I cittadini scrivono perché pensano che qualcuno li ascolti e possa fare qualcosa. Si sfogano, denunciano, implorano
Giuseppe, un altro bambino di dieci anni: «Caro Leone, sono un bambino di terza elementare e so che stai soffrendo molto per Moro… Tutti i capi del governo sperano che finisca questo brutto periodo. Anche tu che governi l’italia e soffri se uccidono qualche italiano. Io non posso consigliarti niente perché non so che ci vuole per fermare il terrorismo. Ti dico solo che di questo terrorismo ho tanta paura perchè con quelle pistole spargono il sangue e uccidono persone per ragioni sciocche, che non hanno senso. Mentre le persone sono più di una ragione».
Il libro di Ponzani consente bene di rileggere la storia italiana lungo la linea rovente dei rapporti tra un uomo, il Capo dello Stato, del quale tutti si fidano, e un’umanità che cerca ascolto. Più si sono inariditi i canali della intermediazione tra società e potere più sembra normale, quasi necessario, prendere carta e penna e scrivere, a un uomo anziano che sta a Roma, una lettera che comincia sempre con le stesse parole: «Caro Presidente».