Quando Goya incontra Gaudì
Pizzi e cappelli da gaucho per Vuitton in una cornice modernista, Ghesquière punta sul fascino «libero»: «Mi piace sentirmi un turista, curioso di ogni cosa»
Appunti di viaggio. Così li chiama lui. Se poi siano ora un cappello da gaucho, ora un cenno di scialle, ora un pois, ora un tocco cavallerizzo, ora un pizzo alla Goya è perché è la sua creatività: a carta e penna, lui preferisce forme e tessuti. Nicolas Ghesquière esce sulla passerella di Louis Vuitton a raccogliere applausi e standing ovation con un sorriso soddisfatto che non gli si vedeva da anni. E non è solo per la città del sole e della gioia, già Barcellona, o per il luogo, quel Parc Güell che Antoni Gaudì pensò come un parcosobborgo, sì, ma alla maniera modernista con case e scale, statue e muretti, colori e luccichii, sorprese e surrealismi ma proprio per il lavoro fatto ispirandosi e cogliendo da una cultura tanto ricca: «Un turista, sì. Mi piace sentirmi così. In ogni Paese, curioso di ogni cosa». Cultura, sopratutto, che, nel caso di quella catalana, ricca di arte e architettura, è parecchio vicina al lavoro del designer che, con forme mai scontate e ibridazioni all’avanguardia,ha sempre cercato nuove strade per raccontare la moda.
Barcellona, dunque. Fra l’altro è ufficiale che pure l’america’s Cup è «brandizzata» Louis Vuitton. E si perde nell’entusiasmo generale del successo la protesta partita dalle Ramblas e poi salita su al Parc, di un centinaia di persone che con campanelli e lattine urlano «Barcellona non è un parco giochi». Un po’ di attesa degli ospiti prima di uscire dai cancelli, ma senza conseguenze. Le fans di Felix, il cantante australiano di origine coreane, invece si fanno sentire eccome: a centinaia e centinaia urlano e piangono. La protesta comunque è più che altro un attacco al turismo, che però è oggi una voce importante della città. Come spiega, stupendosi l’ad Pietro Beccari: «La boutique di Barcellona è la quinta per giro di affari di Europa e Middle Est. Siamo sorpresi persino noi». Anche il manager gongola oggi, ben sapendo che è stato lui due anni fa, fresco di nomina, mentre era in vacanza e prima di cominciare dopo Dior in Louis Vuitton, ad aver avuto l’intuizione: «Ho pensato che diventare sponsor dell’america’s Cup sarebbe stato un bel progetto... e non era ancora entrato in ufficio in LV. Così ho detto ad Arnault di andarcela a prendere quella coppa...e lui che mi ha dato subito l’ok. L’ho detto a Nicolas ed eccoci qui».
Conferma Ghesquière che le cose sono proprie andata così e che entrare nella cultura della città, come sono soliti fare arrivando con queste collezioni, è stato naturale e stimolante, per la sua passione per l’architettura e l’arte. Così avanguardia e modernismo, da Zuloaga a Gaudì, e ancora, ma anche certe ricchezze dei quadri di Goya e Velasquez sono cenni più che allusivi che spezzano il rigore sartoriale di cappotti dalle spalle importanti, mini abiti drappeggiati, colli imponenti da marinaio, vesti di pizzo da Infante, pantaloni da cavallerizza come certi stivali di cuoio da manuale dell’artigiano sofisticato. Un excursus storico ma anche di costume con quei tocchi anni Ottanta e Novanta che Ghesquière maneggia sempre bene.
«E’ un momento in cui le donne vogliono sentirsi affascinanti, penso che la modernità passi da qui da questa sensazione e il mio compito sia oggi quello di aiutarle in questo, cercando risposte in abiti che le facciano sentire libere», risponde alla domanda se oggi ci fosse una silhouette più contemporanea di altre. Dieci anni sono passati dalla prima «crociera» (così si chiamano queste collezioni «ponte» fra una stagione e l’altra), ad ogni viaggio, forse anche il lusso è cambiato. «Per me resta sempre una grande idea di creatività, senza tempo, con un’eccellente artigianalità», riflette il designer. All’ad Beccari, l’analisi: «Siamo in una fase di normalizzazione della crescita e sono più che ottimista. Dopo le crisi ci sono le riprese e se tu sei bravo ad affrontare le curve in velocità mentre gli altri frenano, ri-acceleri in vantaggio».