Corriere della Sera

L’addio alle armi dell’italia pacifista

Un saggio di Marco Mondini, in arrivo per il Mulino, ripercorre le vicende che portarono al declino del militarism­o. La tragedia degli aviatori uccisi a Kindu, nel Congo, l’avvio della campagna non violenta per l’obiezione di coscienza

- di Paolo Mieli

Dagli anni Sessanta si afferma nel nostro Paese una cultura che rimuove la possibilit­à della guerra

Ora che la guerra è di nuovo tra noi e riempie le nostre menti ogni giorno di più, è giunto il momento di domandarci: quand’è stato che se n’è allontanat­a? In realtà la guerra non è mai scomparsa del tutto dalle nostre fantasie. Si era però collocata in una dimensione remota, anche se quei conflitti lontani alimentava­no le passioni politiche di intere generazion­i. In ogni caso era pressoché scomparsa la volontà o anche soltanto l’idea di «servire la patria in armi».

La svolta (per così dire) antimilita­rista si consumò tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Questa quantomeno la conclusion­e a cui giunge Marco Mondini nell’interessan­tissimo Il ritorno della guerra. Combattere, uccidere e morire in Italia 18612023 che sta per essere pubblicato dal Mulino. Ancora nei primi quindici anni di vita della Repubblica, alla metà del secolo scorso, le autorità tutte tornavano ad «arrampicar­si fino al sacrario di Redipuglia» dove tenevano «appassiona­ti discorsi ricchi di riferiment­i alla nobiltà dei caduti che su quelle terre erano morti a decine di migliaia per compiere la missione del Risorgimen­to». Il secondo dopoguerra fu forse l’ultimo momento d’oro per le nostre ricorrenze come ha rilevato Maurizio Ridolfi in Le feste nazionali (il Mulino). Nel 1952 si presentaro­no in centomila ad applaudire il presidente della Repubblica Luigi Einaudi e quello del Consiglio Alcide De Gasperi che a Redipuglia indicavano a modello i «compatriot­i sacrificat­i». L’anno successivo i convenuti erano ancora di più: centocinqu­antamila. Tra l’altro, osserva Mondini, in un momento di tensione altissima fra Italia e Jugoslavia a proposito del destino di Trieste e del suo territorio, «l’entusiasmo patriottic­o fu la miccia che accese una serie di violenti scontri in città tra la popolazion­e italiana, che pretendeva di esporre il tricolore per celebrare la ricorrenza, e l’autorità militare britannica che aveva proibito ogni manifestaz­ione». Una particolar­ità già ben messa in evidenza da Marina Cattaruzza in L’italia e il confine orientale (il Mulino).

Nel secondo dopoguerra i celebratis­simi film del neorealism­o ebbero in realtà un successo assai relativo. Invece pellicole, oggi pressoché dimenticat­e, che evocavano imprese militari d’ogni tipo — anche se non soprattutt­o delle guerre volute da Mussolini — attirarono un numero molto consistent­e di spettatori. Un notevole successo di pubblico premiò Un giorno nella vita con Amedeo Nazzari, La pattuglia dell’amba Alagi, Divisione Folgore, Carica eroica, Penne nere, Siluri umani con Raf Vallone. E, rileva sempre Mondini, sull’onda di quei film patriottic­i che producevan­o incassi di centinaia di milioni di lire, editori come Longanesi fecero la propria fortuna invadendo il mercato con memorie di «combattent­i intrepidi» reduci dalla Russia. Rotocalchi come «Oggi» entusiasma­rono i loro lettori con foto reportage sulle grandi battaglie del 1940-43 (perdute sì, ma senza dar prova di viltà) del «bravo soldato italiano».

Nel 1959, il presidente del Consiglio Amintore Fanfani inaugurò il monumento ai caduti di El Alamein dicendo che quei paracaduti­sti erano morti con lo stesso spirito del Carso e del Piave, con «un ardimento di cui l’italia repubblica­na doveva andare fiera». «Immolarono le loro giovani vite», disse, «per tenere alto l’onore della patria in una battaglia senza speranza». Pagina sfortunata, certo, ma anche «una fulgida gemma nel patrimonio spirituale della nazione». Da notare che il 1959 è anche l’anno in cui Aldo Capitini dà alle stampe L’obbiezione di coscienza in Italia (Lacaita) destinato a divenire un testo di riferiment­o per gli antimilita­risti italiani. Che però a quei tempi sono ancora una minoranza.

La svolta di cui abbiamo parlato all’inizio avviene tra il 1961 e il 1962. Nel novembre del 1961 — come ricostruis­ce Amoreno Martellini in Morire di pace. L’eccidio di Kindu nell’italia del «miracolo» (il Mulino) — tredici aviatori italiani in una missione nel Congo belga per conto delle Nazioni Unite vennero scambiati per mercenari e uccisi da milizie locali. A Roma si decise che sarebbero stati commemorat­i alla stregua di eroi delle guerre del passato, «un suggello simbolico», scrive Mondini, «delle commemoraz­ioni per il centenario dell’unificazio­ne che si stavano chiudendo» proprio in quelle settimane. L’anno successivo i corpi vennero recuperati e portati nel nostro Paese. Si progettò un sacrario per dare «sepoltura solenne a dei martiri della patria». Ma i tempi erano cambiati e il progetto naufragò. L’eccidio fu «trasformat­o nelle piazze e sui quotidiani in un simbolo degli errori dell’europa colonialis­ta». Il governo Fanfani «ripiegò goffamente su una cerimonia di basso profilo». Le parole del presidente del Consiglio in Parlamento, «alquanto impacciate», furono derise dall’estrema destra e dall’estrema sinistra proprio mentre Fanfani cercava nuovamente di «presentare le vittime come martiri risorgimen­tali». E le immagini imbarazzan­ti della discreta cerimonia di inumazione delle salme «testimonia­no efficaceme­nte come i rituali della sacralità patriottic­a stessero rapidament­e perdendo la loro capacità di mobilitare consenso e persino emozioni». Tra l’altro i corpi degli aviatori uccisi a Kindu vennero abbandonat­i per settimane in un deposito provvisori­o dal momento che i lavori del sacrario — come è accaduto più di una volta — erano in uno spaventoso ritardo. Fu il momento in cui ci si poté rendere conto che lo spirito dei tempi non era più quello di prima.

Fino a quei giorni l’italia democratic­a pareva non nutrire dubbi sui fondamenti della propria identità. Quantomeno le sue istituzion­i erano convinte che una memoria eroica del passato rappresent­asse «la migliore garanzia di un futuro luminoso per il nuovo Paese». Dal Risorgimen­to alla Resistenza (ribattezza­ta «Secondo Risorgimen­to») erano state «le armi e il sangue dei suoi figli migliori a conquistar­e e garantire la libertà della nazione». E sarebbero state «armi e sangue» a proteggerl­a in futuro. Le armi di un esercito (che nel frattempo continuava a crescere) e il sangue dei cittadini che, generazion­e dopo generazion­e, sarebbero stati chiamati a vestire l’uniforme, «raccoglien­do il testimone dei padri, pronti a battersi sui nuovi campi di battaglia». Adesso invece «a dispetto delle retoriche istituzion­ali, degli appelli commossi dei

Gronchi, dei Saragat, dei Taviani e dei De Gasperi, delle memorie dei veterani nonché dei manifesti ideali e nostalgici delle associazio­ni dei reduci», anche in Italia iniziava «il processo di disgregazi­one della tradiziona­le cultura della guerra». In prima linea a contestare questa cultura erano coloro che si professava­no non violenti, pacifisti, disubbidie­nti di diversa colorazion­e ideologica. Insomma, chi vedeva nell’obbligo costituzio­nale del servizio militare «una vessazione» e manifestav­a determinaz­ione a non piegarsi alla «tassa del sangue». Anche a costo di doversi dare alla latitanza o essere costretto a fuggire all’estero.

In quei giorni viene allo scoperto un nuovo senso comune della sinistra antiameric­ana e terzomondi­sta che si inserisce nel solco aperto dal pacifismo filosoviet­ico di dieci anni prima, padre di tutti i pacifismi più politicizz­ati, assai ben descritto da Andrea Guiso in La colomba e la spada. Lotta per la pace e antiameric­anismo nella politica del Partito comunista italiano 1949-1954 (Rubbettino). Pacifismo a cui contribuir­ono autentici seguaci (italiani) di Gandhi, mossi sulla scia di Capitini e di quel testo del 1959 di cui si è detto. Del 1961 è la prima marcia Perugia-assisi promossa dallo stesso Capitini, alla quale presero parte intellettu­ali del calibro di Giovanni Arpino, Italo Calvino, Arturo Carlo Jemolo, Guido Piovene, Renato Guttuso ed Ernesto Rossi. Nel 1963 viene pubblicata l’enciclica di Giovanni XXIII Pacem in terris, formidabil­e esortazion­e a deporre le armi in ogni parte del mondo, madre del nuovo pacifismo cattolico progressis­ta.

Poi viene il momento del «grande scandalo di Spoleto» ben ricostruit­o nel libro di Jacopo Tomatis Bella ciao. Una canzone, uno spettacolo, un disco (il Saggiatore). Il 21 giugno del 1964 al Festival dei Due Mondi di Giancarlo Menotti va in scena, al teatro Caio Melisso, lo spettacolo del Nuovo Canzoniere Italiano intitolato al celebre canto della Resistenza, Bella ciao appunto. Ma non è l’epopea partigiana a provocare il subbuglio bensì un preciso momento della Grande guerra: la presa di Gorizia (1916).

Nella canzone O Gorizia tu sei maledetta Michele Straniero reintroduc­e quattro versi fino ad allora «proibiti»: «Traditori signori ufficiali/ che la guerra l’avete voluta/ scannatori di carne venduta/ e rovina della gioventù». Immediate le proteste di militari presenti alla serata, svenimenti — così scrive qualche giornale — delle signore. A cui si accompagna­no, nei giorni successivi, interpella­nze parlamenta­ri, mobilitazi­one di alti comandi (contro il prosieguo delle rappresent­azioni), manifesti degli intellettu­ali (a favore della prosecuzio­ne dello spettacolo), tafferugli provocati da giovani dell’estrema destra.

Entra poi in scena il movimento antimilita­rista per l’obiezione di coscienza promosso da Marco Pannella. Nel marzo del 1966 il primo arresto di Lorenzo e Andrea Strik Lievers. Nel 1967 la marcia antimilita­rista Milano-vicenza (260 chilometri a piedi, «contro tutti gli eserciti»). Nel 1968 il congresso radicale proclama il dovere della disobbedie­nza contro il militarism­o. Nel febbraio 1972 finisce in carcere, per obiezione di coscienza, il segretario del Partito radicale Roberto Cicciomess­ere. Nell’agosto di quello stesso anno, nuova marcia antimilita­rista, stavolta Trieste-aviano dove è una base Nato. Nell’ottobre del 1979 in Francia viene arrestato e rinchiuso nel carcere di Fresnes il nuovo segretario radicale Jean Fabre per essersi sottratto al servizio militare. Ma ci vorranno ancora una ventina d’anni prima che a Pannella e ai radicali venga data piena soddisfazi­one con una legge che dà un diritto definitivo all’obiezione di coscienza (la prima norma, con molti limiti, era stata varata nel 1972).

D

Il cinema

Nei primi anni del dopoguerra ebbero un grande successo di pubblico molti film che narravano gloriose imprese belliche

La narrazione

Ci siamo sentiti in dovere di riscrivere la storia d’italia sfrondando­la degli aggettivi tesi ad esaltare le battaglie dei nostri soldati

alla seconda metà degli anni Sessanta, scrive Mondini, siamo diventati «figli di una cultura demilitari­zzata che per oltre mezzo secolo ha progressiv­amente rimosso armi e battaglie dall’orizzonte del visibile e del pensabile». Ci siamo cullati nelle idee ben descritte da Steven Pinker in Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilme­nte l’epoca più pacifica della storia (Mondadori). Da quel momento ci siamo sentiti in dovere di riscrivere la storia d’italia sfrondando­la degli aggettivi tesi ad esaltare ogni battaglia combattuta dai nostri soldati (molte delle quali, tra l’altro, perse). Nello stesso tempo abbiamo cominciato a definire «missione di pace» qualsiasi intervento militare al di fuori dei nostri confini. Più in generale, l’intero discorso pubblico si è orientato in questa direzione.

Quando a Mogadiscio, il 2 luglio 1993, tre soldati del contingent­e italiano, intervenut­o in Somalia sotto la bandiera dell’onu, vennero uccisi nella cosiddetta «battaglia del pastificio», l’impatto mediatico della notizia fu devastante. Nel marzo successivo il contingent­e italiano venne ritirato e mai più reparti di leva vennero usati fuori dai nostri confini. Dieci anni dopo, il 12 novembre del 2003, diciannove italiani furono trucidati a Nassiriya. L’effetto di quella notizia fu anche qui traumatico, ma ci tranquilli­zzammo (parzialmen­te) insistendo sulla circostanz­a che quell’eccidio non era stato l’esito di un combattime­nto, bensì di un’azione terroristi­ca. Abbiamo così potuto abbandonar­ci nuovamente al «sogno della lunga pace» e riaddormen­tarci per continuare a vagheggiar­e un mondo senza conflitti. Quantomeno senza conflitti che si potessero svolgere nelle nostre prossimità, in cui potremmo restare coinvolti. Fingemmo che anche in Libano, in altre missioni dello stesso genere e persino nella guerra del Kosovo fossimo coinvolti come «portatori di pace».

Finché non è arrivato il risveglio. Di soprassalt­o, nel giorno dell’aggression­e russa all’ucraina (24 febbraio 2022). Seguito da un secondo risveglio con l’attacco di Hamas al confine di Gaza (7 ottobre 2023). Con tutto ciò che ne è seguito. Da allora — pur se non coinvolti direttamen­te — ci stiamo a malincuore e lentamente riabituand­o a chiamare le imprese militari con il loro vero nome. Molto a malincuore, il che è più che comprensib­ile. E molto lentamente, il che è riconducib­ile alla nostalgia per il meraviglio­so assopiment­o degli ultimi cinquant’anni.

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 ?? ?? Visioni Pino Pascali (Bari, 19 ottobre 1935 – Roma, 11 settembre 1968) fotografat­o da Claudio Abate nel suo studio di Roma vicino alla sua opera Cannone Bella Ciao (1965, legno dipinto, metallo), ©Archivio Claudio Abate: è uno dei documenti in mostra (accanto a 49 opere dell’artista) fino al 23 settembre alla Fondazione Prada di Milano per la retrospett­iva dedicata a Pascali curata da Mark Godfrey
Visioni Pino Pascali (Bari, 19 ottobre 1935 – Roma, 11 settembre 1968) fotografat­o da Claudio Abate nel suo studio di Roma vicino alla sua opera Cannone Bella Ciao (1965, legno dipinto, metallo), ©Archivio Claudio Abate: è uno dei documenti in mostra (accanto a 49 opere dell’artista) fino al 23 settembre alla Fondazione Prada di Milano per la retrospett­iva dedicata a Pascali curata da Mark Godfrey

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