«Disuguaglianza sociale freno per la crescita del Paese»
L’analisi di Jenkins: Italia e Stati Uniti al collasso
TRENTO Mancanza di crescita e blocco della mobilità sociale: Stephen Jenkins, professore neozelandese di Politica sociale ed economica alla London School of Economics, squarcia il velo dell’indifferenza sulla peggiore delle ingiustizie sociali: la disuguaglianza. Questione che non solo rischia di pregiudicare il futuro di tanti, tantissimi giovani, ma che bloccherebbe addirittura la crescita di intere nazioni.
«È paradossale che le maggiori economie al mondo oggi registrino performance tanto negative in quanto a mobilità intergenerazionale e a pari opportunità» riflette il professore. Così, studiare confini e soluzioni del problema, diventa fondamentale, oggi più di ieri, per assicurare un uso più efficiente delle risorse e una maggiore giustizia sociale.
Ma a quanto ammonta la mobilità sociale negli Stati sviluppati? E, soprattutto, come la si misura? In primis, secondo l’esperto, diventa fondamentale considerare la mobilità in riferimento alla retribuzione più che al reddito familiare, confrontando le attese di padri e figli in determinati momenti storici. In gergo: si tratta di applicare la regola delle «matrici di transizione», modo con cui gli economisti analizzano le chance di crescita dei cosiddetti «nati dal basso». Da ciò emerge come, in l’Italia, la possibilità di ascensione sociale per chi parte da una condizione di povertà sia pari (solo) al 10%. Condizione ben diversa per i più abbienti che nel quaranta per cento dei casi riuscirebbero a mantenere inalterato il proprio status di ricchezza.
«A differenza degli Stati nordici che vantano poca disuguaglianza e grande mobilità, Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America tendono al collasso, rinnegando ogni forma di “sogno possibile”» evidenzia Jenkins. E avverte: «L’impegno per arginare questa degenerazione dovrebbe essere comune e a ben vedere, difficilmente troviamo politici contrari a una elevata mobilità sociale, ma pochi di loro intervengono con programmi concreti».
Il problema? Questione di tempo, secondo il professore, «perché lavorare sulla mobilità sociale vuol dire pensare in un’ottica di lungo periodo, mentre i nostri politici hanno orizzonti molto ristretti. In fondo, è tutta una questione di volontà».
Eppure, ancora tanto c’è da scoprire in riferimento alla mobilità, rivedendo, in parte, le stesse tecniche di analisi. A sentire il professor Jenkins, infatti, sarebbe importante valutare non solo le circostanze d’origine e, quindi, l’appartenenza a una famiglia più o meno benestante, ma anche gli sforzi fatti da ogni persona nel corso della vita per raggiungere una carriera, un reddito e una posizione sociale più elevate.
Risultanze che andrebbero analizzate anche in un’ottica di genere: «In Italia, ad esempio, alcuni studi mostrano un leggero aumento della mobilità di classe negli uomini — chiarisce Jenkins — ma a ciò non segue alcuna evidenza comparabile, in quanto a reddito, occupazione e corrispondenza femminile». E infine conclude: «Le ricerche sono fallibili e noi esperti, per primi, dovremmo essere più onesti, ammettendo la fallibilità dei nostri studi».