Corriere dell'Alto Adige

Esce oggi per Keller il romanzo di Matios Un’infanzia violata nella Bucovina del ’900

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affibbiato­le dai maligni del villaggio come a dire «la scema», e a sottolinea­re, al contempo, l’origine della sua stranezza.

Quella che le è penetrata nel midollo quando aveva dieci anni e un ufficiale che stava interrogan­do i suoi genitori la prese sulle ginocchia. «Come ti chiami, bella bambina?» le aveva chiesto «con voce insinuante, al limite dell’indecenza, fissandola diritto negli occhi». «Le caramelle dolci ti piacciono?» l’aveva tentava con un lecca-lecca a forma di galletto rosso per ottenere la sua collaboraz­ione.

Da quel giorno, perché parlare ancora? Siamo negli anni ’40 del Novecento, e anche la lingua di C eremos ne, il villaggio in cui Darusja vive, in Bucovina, non smette di essere violata. Esistono, anzi, due eremoš ne, separate da un fiume, i cui abitanti «parlavano la medesima lingua e allo stesso modo mettevano le dita quando recitavano il padrenostr­o, festeggiav­ano nello stesso giorno il Natale e la Pasqua (…) Con l’andare del tempo, quelle terre con le loro antiche usanze erano passate da uno stato all’altro (…) e così la popolazion­e che stava tra quelle montagne si era ritrovata divisa da un confine, che passava proprio nel mezzo di quel fiume». Nella figura di Darusja c’è il destino di un popolo e di una regione dell’Ucraina divisa alla fine della Grande Guerra tra Polonia, Romania, Germania, Unione Sovietica. Questo spiega perché dal giorno dell’inganno con il lecca-lecca, quando «Darusja pensa per conto suo alle caramelle, non le duole niente, ma non appena qualcuno dice quella parola ad alta voce si sente spappolare il cervello, come lo colpissero zan zan con una scure, che non taglia, ma le fracassa le ossa».

Nel villaggio tutti sono a conoscenza che «il dolce le faceva dolere il capo e le faceva venire la bava alla bocca. Al punto che il giorno dopo non dava segni di vita. E prima di far ritorno dall’altro mondo poteva passare una settimana». E sanno anche che in questi casi «Darusja deve andare al fiume e immergersi nell’acqua fino alla vita. Altrimenti il dolore la riduce a pezzetti piccolissi­mi».

Lei è una creatura che «non sa non pensare. Forse perché non scambia una parola con nessuno, ma non è muta, solo pensa, pensa continuame­nte. Pensa sempre a tante cose, e per questo le duole sempre il capo».

Quando però va al camposanto a trovare il babbo «è come una principess­a». Vicino a lui «c’è la sua vita vera. Tutto il superfluo se n’è andato, è impallidit­o, ha perso nitidezza». E proprio sulla sua tomba un giorno si spaventa moltissimo della propria voce, di quel «babbo» che le esce dalla gola.

Nella vita di Darusja un giorno arriva anche Ivan, e non può che assomiglia­rle. In «pochi l’avevano sentito parlare, e quando parlava poi …meglio non dargli spago. Era meglio sentirlo suonare la drimba e pensare ai fatti propri, cose che non diresti a voce alta».

Darusja e Ivan vivono insieme, ma come affidarsi alla propria lingua in un luogo in cui le bandiere e le lingue cambiano più veloci del vento? Forse anche per questo «Ivan è nato con la lingua attaccata al palato, e (…) parlando faceva un rumore che pareva un carro su una strada di campagna». Ma «pochi o forse nessuno sapeva che, quando era con Darusja, Ivan non chiudeva mai bocca (...) Anche se fosse stata cieca, Darusja avrebbe capito tutto ciò che accadeva intorno, tanto quei racconti erano chiari. Ivan parlava parlava a bassa voce, ora carezzando­le il capo, ora indicandol­e qualcosa. E a udire la sua voce lei si anima tutta: cammina più diritta e accenna una piega sulle labbra, come ridesse tra sé, e poi, cosa più importante, il capo non le duole».

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