Letture di montagna con Itas Conefrey e l’Everest normale
Gli eventi sono «incredibili», il viaggio è «formidabile», gli elementi della natura «impietosi», gli ostacoli «quasi invalicabili» e la lotta «all’ultimo respiro» e la vicenda è ovviamente «epica». Questo è il linguaggio con cui viene raccontata la storia narrata in Everest, film presto nelle sale italiane dopo la presentazione al Festival del cinema di Venezia e che descrive, sulla scorta di Aria sottile di Krakauer, le tragiche ascensioni del 1996.
Lo stesso aggettivo è stato usato nel sottotitolo di un libro di Mick Conefrey, Everest 1953. L’epica storia della prima salita (edizione italiana: Corbaccio, 2013), segnalato al Premio Itas del Libro di Montagna 2015, dove ha invece ricevuto il premio come miglior esordiente Tanis Rideout con un romanzo anch’esso centrato sulla montagna tetto del mondo (si veda il Corriere del Trentino e il Corriere dell’Alto Adige del 23 luglio).
Diciamo subito che Conefrey è un esperto autore di montagna: ha al suo attivo molti libri e anche molti documentari per la BBC e per Discovery Channel. Lo scorso anno, con un suo rigoroso film, ha contribuito a risolvere forse definitivamente la querelle sul K2, sul ruolo di Bonatti e sulla questione delle bombole d’ossigeno. A breve è annunciata l’uscita anche di un libro sulla stessa vicenda, per ora solo in inglese, dal titolo significativo The ghosts of K2 (I fantasmi del K2).
Ho ricordato chi è l’autore perché si può subito capire che il suo approccio a quella impresa è anzitutto appunto da giornalista e, verrebbe da dire, da storico. Perché usa tutte le fonti a disposizione e le usa con consapevolezza critica, perché non si pone come obiettivo l’esaltazione pura e semplice, magari in chiave nazionalistica, di un’impresa giustamente considerata «storica».
Tutta la vicenda è raccontata in 13 capitoli, che portano il lettore dentro la vita degli alpinisti coinvolti: non solo di Edmund Hillary e dello sherpa Norgay Tenzing, che arrivarono alla vetta, ma anche, e forse soprattutto, di John Hunt che quella spedizione organizzò e diresse.
Nel libro c’è però anche molto altro. L’autore ci aiuta a capire perché su quella montagna la Gran Bretagna riversasse così grande attenzione: perché, ricorda Conefrey, «erano stati gli inglesi a misurarlo, gli inglesi a dargli un nome, a fotografarlo, a sorvolarlo, gli inglesi a morirci». E poi ci fu quella coincidenza, che a molti parve costruita ed invece fu del tutto fortuita, per cui il giorno della pubblicazione della notizia della conquista (2 giugno 1953) coincise con l’incoronazione di Elisabetta II. Quasi una «incoronazione» anche per l’Everest, il cui nome locale era invece Chomolungma. Insomma, l’Everest come montagna dall’alto contenuto simbolico.
Eppure, c’è qualcosa che lascia apparentemente stupiti di quella spedizione, che, «in un certo senso riuscì troppo bene e fu troppo bene organizzata», «senza nessun incidente con morti e feriti né il minimo accenno di congelamento» che «l’ha fatta apparire quasi troppo facile». La spiegazione che dà Conefrey è che «la Gran Bretagna ama i suoi esploratori, ma ha riservato sempre un posto speciale agli insuccessi eroici e agli uomini che non sono tornati». Già, perché in fondo è vero: i miti del mondo epico non hanno età, non possono invecchiare, rimangono eternamente giovani, come Ettore, Achille, Patroclo. O che, se tornano, come Ulisse, devono affrontare altre sfide. Ma, forse, questo non è solo affare britannico, e ha a che fare con una dimensione più universale dell’essere umano. A Conefrey dunque il merito di aver tracciato un quadro di una storia che non è stata tragica, ma, semmai «umanamente» epica.