Brennero, la nuova comunità con i migranti
Fino a qui tutto bene Viaggio nel paese di confine: dove vivevano doganieri e finanzieri ora ci sono immigrati L’Associazione Atelier ha costruito un progetto di racconto delle loro storie. «Qui mancano tutte le strutture sociali»
BRENNERO C’è un carattere comune che come un filo rosso tiene insieme i progetti della sezione Percorsi della Piattaforma delle Resistenze Contemporanee: tutti sembrano prendere forma da un generoso slancio di curiosità, da un potente desiderio di osservare, di conoscere e di partecipare. È probabilmente questo a farne degli esempi virtuosi di resistenze dei giorni nostri. Grazie al loro radicamento sui territori, ad un’attenta lettura del presente, allo sguardo sempre rivolto a un futuro desiderabile, questi percorsi costituiscono non solo un’occasione per ravvivare la memoria, ma un vero e proprio laboratorio diffuso, nel tempo e nello spazio, per lo sviluppo di forme di cittadinanza attiva e consapevole.
Non mancano certo queste qualità al gruppo della Cooperativa Atelier che ha raccolto una sfida difficile e affascinante in un luogo di frontiera tra Italia e Austria, ma anche tra rischi e grandi potenzialità nascoste.
A Brennero Passo, questo è il nome della località da sempre terra di frontiera e per secoli ricco centro di scambi e commerci, gli accordi di Schengen, che hanno rimosso le frontiere all’interno dell’Unione europea, hanno innescato dinamiche le cui conseguenze sono ancora fuori controllo. Gran parte degli appartamenti costruiti circa un secolo fa per ferrovieri, finanzieri, personale della dogana sono rimasti vuoti e affittati da nuovi cittadini in cerca di alloggi a buon prezzo. Oggi buona parte degli abitanti di Brennero Passo è non nativa.
«Per noi Brennero è uno specchio, un emblema della nostra epoca su cui merita riflettere: Brennero ci parla di noi e del nostro tempo — racconta Francesco Tancredi, fondatore e presidente di Atelier — di un’epoca di grandi migrazioni e di grandi trasformazioni in cui c’è chi guarda il dito e chi vede la luna: chi lamenta i disagi e chi comprende che la convivenza è una risorsa, fragile e difficile, ma straordinaria, che merita di essere coltivata e apprezzata. Se questa globalizzazione ci toglie qualcosa, chiediamoci cosa ci possa dare, chiediamoci che senso possiamo darle: forse questo esercizio continuo di un pensiero complesso, il continuo mettersi nei panni degli altri davvero ci aiuta anche a pensare e a vivere meglio. D’altronde la vita stessa è un continuo differire, divenire in cui nulla rimane identico, la vita è differenza. Solo se proponiamo questa visione, a chi arriva da un altro continente a vivere da noi, potremo proporgli di fare un cammino insieme e inventare, creare insieme, a partire naturalmente da tutto ciò che siamo, la comunità che saremo domani».
Con questo approccio Atelier ha promosso l’anno scorso, nell’ambito dei Percorsi, il progetto «T’immagini Brennero?», un’indagine conoscitiva della realtà di una terra di confine in cui si fondono ricerca antropologica e storytelling di comunità. Si è trattato di un primo passo di un percorso più ampio teso a valorizzare il villaggio globale di Brennero. Per quattro mesi, una volta alla settimana, gli esperti di Atelier sono andati ad incontrare gli abitanti di Brennero e raccogliere i racconti dei loro presenti, dei loro passati e dei loro futuri possibili, eventuali, anche inverosimili.
«Proprio il momento dell’espressione dei desideri — continua Tancredi — è apparso come il punto più delicato, critico e decisivo, perché spesso chi arriva da un altro paese, e fa i conti con le difficoltà della migrazione, non si autorizza a desiderare. Il fatto è che privata dei propri desideri una persona non è più tale e soprattutto non è più in grado di contribuire attivamente a quel percorso di creazione di una comunità nuova che è l’integrazione interculturale. Questo processo non può avvenire senza questo autorizzarsi, questo divenire autori: infatti solo entrando in questo movimento di riconoscimento e di affermazione dei propri desideri il soggetto entra in un percorso di iniziativa e di responsabilità, in un processo reale di partecipazione. Anche per questo dico che abbiamo molto da imparare dalla realtà di Brennero, anche per comprendere il difficile compito dell’intercultura cui siamo chiamati in questo tempo».
Da tutti questi racconti è stato tratto un suggestivo racconto polifonico, un montaggio di brani di racconti di abitanti di diverse nazionalità, riportati senza citare il nome del testimone. Ne emerge un quadro tanto contraddittorio quanto rivelatore della complessità sociale di questo luogo. Il percorso si è chiuso con una festa, una mostra per incontrarsi in cui insieme al racconto polifonico sono state esposte foto dei volti dei nuovi cittadini di Brennero, che hanno scelto di metterci la faccia, di affermare il loro legame con questa terra e foto dei luoghi, scattate individuando angoli che gli abitanti hanno trasformato secondo un gusto forse non autoctono, che ne fanno forse già un po’ un global village.
La festa ha permesso di far vivere un luogo di incontro, uno spazio comune che ancora oggi manca a Brennero. Il Sindaco Kompatscher e la direttrice dei servizi sociali Tinkhauser hanno partecipato alla festa manifestando interesse agli sviluppi di questo processo partecipativo che conoscerà nei prossimi mesi una nuova fase, ancora in fase di definizione che richiederà senz’altro uno sforzo comune.
«Ci sono due prospettive: un ghetto o un global village — esclama Tancredi — Quel che appare chiaro è che a Brennero non esiste un centro sociale, un distretto sanitario, non ci sono scuole, non c’è un parco giochi, diciamocelo, un’altalena non è un parco giochi. Uno spazio pubblico, per incontrarsi non a casa di qualcuno ma in un luogo in cui tutti siamo cittadini, in un luogo dal clima così rigido, sarebbe essenziale e qui non c’è. Non possiamo non chiederci, alle porte d’Europa, perché i nuovi cittadini dovrebbero aprirsi — come naturalmente ci auguriamo — alla cultura che li accoglie, se questa cultura non dispone un luogo per socializzare e uscire dalla propria micro-comunità. In fondo, se italiani e tedeschi vivono separati da invalicabili muri invisibili, prigionieri delle loro identità, perché mai i pakistani o i macedoni o i turchi dovrebbero fare altrimenti? Vogliamo comprendere che tanto dipende dal nostro sguardo? Vogliamo continuare a guardare il dito o alzare lo sguardo e vedere la luna?».