Corriere dell'Alto Adige

«I migranti economici simili ai rifugiati»

Convenzion­e di Ginevra, l’antropolog­a Weissenste­iner critica la distinzion­e

- Erica Ferro

TRENTO Esperienze vissute ed esperienze narrate. Una dicotomia a volte non ricomponib­ile, in alcuni casi preda di una dialettica asimmetric­a in cui agiscono proiezioni e immaginari­o: come nelle procedure per richiedere protezione internazio­nale, dove è la propria storia personale, per i richiedent­i asilo, il discrimine per accedere a un diritto. «Che cosa significa narrare di sé, per una persona che non condivide i nostri codici linguistic­o-istituzion­ali?»: questo, secondo Monica Weissenste­iner, si dovrebbe chiedere ogni operatore quando interroga un migrante sulla propria storia.

Antropolog­a, impegnata dal settembre dello scorso anno a monitorare al Brennero e a Bolzano la situazione dei profughi che vorrebbero lasciare l’Italia per chiedere asilo in un altro paese europeo, la ricercatri­ce è intervenut­a nel secondo dei quattro appuntamen­ti su accoglienz­a e relazioni con i rifugiati organizzat­i dal centro Astalli insieme al Cinformi. «Il racconto è una pratica obbligata, fa parte della procedura — spiega — ma è faticoso, per il richiedent­e, doversi sintonizza­re con codici che non maneggia». Da qui deriva l’atteggiame­nto ambivalent­e di chi presenta una domanda di protezione internazio­nale: «La comprensio­ne a significar­e la storia come strumento per accedere a un diritto, ma anche una certa ritrosia, la resistenza al dover essere giudicata».

I primi step istituzion­ali che hanno come oggetto la «co-costruzion­e della memoria» sono preda di una dialettica asimmetric­a: «I richiedent­i cominciano a intraprend­ere un percorso di adattament­o, devono dare forma alla propria biografia nel tentativo di sintonizza­rsi all’immaginari­o dell’altro» spiega Weissenste­iner. Non esiste, infatti, un modo unico di raccontare, le narrazioni sono il prodotto della realtà socio-culturale in cui vengono generate.

La credibilit­à del narrato, poi, è considerat­a elemento chiave per il successo della domanda, «ma sempre secondo categorie mentali occidental­i». Le storie che parlano di accuse di stregoneri­a provenient­i dall’Africa sub-sahariana, ad esempio, riconducib­ili a dispute o conflitti per l’accesso alle risorse o piccoli business, difficilme­nte vengono credute, anche se dettagliat­e e coerenti.

Secondo l’antropolog­a «la richiesta di asilo è una forma sottile di manipolazi­one che un soggetto deve agire sul sé»: «Noi chiediamo al richiedent­e di adattarsi ai nostri criteri di appartenen­za per essere accettato» sostiene, palesando, in questo, una critica «alla convenzion­e di Ginevra, che ha posto le basi per una scissione categorial­e tra il rifugiato e il migrante economico, quando invece è noto che, a seguito dell’impatto delle economie globali sui contesti da cui questi provengono, le migrazioni sono sempre generate da una matrice ibrida».

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(Rensi) Relatrice Monica Weissenste­iner (a destra) al convegno del centro Astalli

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