Banda: il mio Pablo rimanda alle tragedie greche
Esce in questi giorni «Io, Pablo e le cacciatrici di eredità» L’autore: «La mia scrittura è contro i luoghi comuni»
Da oltre dieci anni, Alessandro Banda è alle prese con Lucio Sergio Catilina. «Ci sto lavorando, sarà un romanzo ambientato a Roma nel 63 a. C. ai suoi tempi», confida. Titolo: «La congiura di Catilina». Ce la farà? Ce la farà di sicuro e quando sarà avremo tra le mani il lavoro della piena maturità di questo scrittore meranese (ma nato a Bolzano), che intreccia la scrittura con il lavoro di insegnante (ampiamente e sapidamente raccontato nel suo penultimo libro) e con lunghe passeggiate in luoghi non ortodossi ma magnifici della cittadina dove ha deciso di vivere.
Intanto, con una accelerazione inconsueta dell’intervallo tra una uscita in libreria e l’altra, ecco pronto Io, Pablo e le cacciatrici d’eredità che l’editore romano Alberto Gaffi (lo stesso di una travagliata versione italiana del 2010 di Da un giorno all’altro di Sabine Gruber e traduzione di Umberto Gandini, lo stesso che sta raccontando l’universo di Italo Svevo e altre meraviglie) manda in stampa in questi giorni.
Io, Pablo e le cacciatrici d’eredità è un romanzo intenso, straniante e coraggioso dedicato ai conflitti ereditari — prima freudiani in famiglia, a scuola e nel lavoro, poi molto più pratici e monetari — di un fratello dell’io narrante. E la stesura è così rigorosa, così forte, così al contempo allusiva che stordirà e affascinerà i lettori. Tanto che non sfigurerà, anzi, con lo stesso romanzo prossimo venturo dedicato a Catilina. E con quelli che, semmai, saranno pubblicati prima che «Catilina» veda finalmente la luce e gli scaffali delle librerie.
Perché questo, soprattutto, emerge ormai dello stile e del linguaggio bandiani: la dilatazione del rapporto spazio-tempo che si fa ritmo narrativo. Poi, la scansione ben calibrata fra elementi della trama e digressioni storiche. E poi ancora l’eleganza linguistica, per nulla ostentata. Che lo colloca in un pantheon letterario al quale sono ammessi, da questa regione, in ben pochi.
Banda, perché ha deciso di pubblicare questo romanzo a pochi mesi dall’uscita del suo ultimo libro?
«La vecchiaia incalza; sento di non aver più molto tempo davanti».
Al di là del tempo che incalza, che cosa ha provato nella scrittura di un nuovo manoscritto così vicina all’uscita del libro precedente e quante stesure ha affrontato? «Una unica stesura». L’Io narrante ci restituisce una tragedia familiare dall’archetipo diffuso. Da quali insidie, superandole, si è voluto salvaguardare nella scrittura del manoscritto? «Dalle insidie del luogo comune». In che cosa è cambiato il suo modo di lavorare? E ha cambiato approccio verso se stesso?
«Non è cambiato, è sempre quello. Leggo metodicamente ma scrivo quando ho tempo… Quanto a me, sono stato sempre severo con me stesso».
Lo stile di questo nuovo romanzo conferma una sua identità matura: la conoscenza dei Classici l’ha aiutata?
«In Orazio e in Petronio, tanto per fare un esempio, sono narrate vicende analoghe a quella che racconto io: la loro lezione è sempre attuale».
Il racconto di Pablo rimanda ad echi dei modi della tragedia greca e sembra di intravvedere una sorta di Coro che segue e sottolinea la cosiddetta trama: concorda? «Concordo pienamente». Lei continua a raccontare una Italia e un Sudtirolo sghembi rispetto ai luoghi comuni: perché?
«Perché sono, mio malgrado, un divergente».
Questo la porta anche a qualche fraintendimento. Alcuni personaggi minori e di fantasia di «Il lamento dell’insegnante» hanno provocato incomprensioni nel suo ambiente di lavoro a Merano?
«Naturalmente. Ma, dato l’ambiente, c’era da aspettarselo».
Lei si sente nel suo lavoro di scrittura più sulfureo, più iconoclasta, più allusivo o più sarcastico?
«Probabilmente risulto così per chi legge; io cerco solo di essere quello che sono».
In questo 2016 lei terrà anche lezioni alla Lub. Di che cosa parlerà ?
«In collaborazione con Hans Drumbl parliamo del Porto sepolto di Ungaretti, in occasione del centenario della pubblicazione, e delle traduzioni tedesche e francesi dello stesso».
Lei è perfettamente bilingue e probabilmente conosce altre lingue moderne. Che cosa pensa della traduzione di un suo testo?
«Sono convinto che la traduzione sia sempre un altro testo. I miei libri? Sono stati tradotti in tedesco, da un editore austriaco, alcuni capitoli da La città dove le donne dicono di no e Dolcezze del rancore. Questo ultimo, Io, Pablo e le cacciatrici di eredità forse sarà tradotto in francese».
Il suo approccio con l’Alto Adige è cambiato negli anni?
«È cambiato perché è cambiata questa terra. La quale un tempo aveva delle specificità, che però ora sta perdendo ed è ormai un posto come un altro».
Secondo Max Frisch «la letteratura è sempre denudamento»: ci sono tracce autobiografiche nel suo romanzo?
«Abbastanza».