Arriva Sarasso La Mafia raccontata in nove volumi
In arrivo a Bolzano due autori di gialli con i loro lavori appena usciti Sarasso svela «Da dove vengo io» e sarà al Pippo il 23 giugno
Bolzano si tinge di nero, anzi di noir, il 22 e il 23 giugno con le presentazioni di due libri molto attesi dai lettori di gialli e affini. Mercoledì alle 18.30 all’aula magna della Dante Alighieri in via Cassa di Risparmio il bolzanino Luca D’Andrea presenta, in compagnia dell’editor Luca Briasco, La sostanza del male, il thriller in uscita per i tipi di Einaudi che è già stato venduto in una ventina di Paesi ed è ambientato sulle Dolomiti. Giovedì invece, al Pippo (Parco Petrarca), alle 19.30 Simone Sarasso introduce il suo nuovo romanzo Da dove vengo io, fresco di stampa per Marsilio e primo di nove volumi del ciclo Cent’anni dedicato alla mafia italoamericana. Sarasso, classe ’78, è una delle voci più originali e interessanti del panorama italiano, uno scrittore che ha riscosso successo in patria e all’estero, e che al gusto del noir affianca uno spessore storico e politico raro. Lo abbiamo incontrato.
Dopo le parentesi ambientate nell’antichità degli ultimi romanzi per Rizzoli è tornato al Novecento…
«Non ho mai smesso di sbavare per il Novecento. E, soprattutto, per la storia criminale. Questo progetto folle e sterminato nasce proprio dalla voglia — che ho più o meno da quando ho cominciato a scrivere da professionista, dieci anni fa — di raccontare l’America del malaffare. O meglio, la New York che mi è rimasta dentro per colpa di tanti film e tantissimi libri. Quella degli speakeasy, di Babe Ruth, dei Thompson, delle prime Ford V8. La New York di Lucky Luciano, Meyer Lansky, Bugsy Siegel e Frank Costello».
Da dove vengo io è un titolo che fa riferimento all’Italia…
«La storia è storia, ci sono dati di fatto che non si cambiano. Per quanto ci si voglia raccontare che oggi a migrare è un’altra parte del mondo — e la cosa non ci riguarda — cent’anni fa noi italiani, e molti altri, attraversammo l’Oceano con le saccocce vuote di tutto fuorché della speranza, la valigia di cartone e una paura che squassava le budella. Qualcuno non ce l’ha fatta, qualcuno è rimasto prigioniero della quarantena e solo dopo un mese rispedito a casa, qualcun altro — tantissimi altri — è sbarcato. A New York ha lavorato, delitto, amato, dato alla luce dei figli, morto. Senza più tornare indietro. Qualcuno è stato un seme: non più italiano, ma neppure americano, ancora. I suoi figli e le sue figlie hanno cambiato pelle, diventando qualcuno che prima non c’era. È così che è nata l’America che conosciamo. Col nostro sangue, impastato a quello di chi, prima di noi, ha avuto l’ardire di solcare il Grande Blu». Nove volumi?
«Ci vuole spazio e tempo per raccontare un secolo. Lo so, nella società dell’on demand spinto e dello smartphone sovrano, dove nove secondi ci sembrano troppi per attendere il caricamento di un video su
YouTube, sembra anacronistico un romanzo lungo quanto l’enciclopedia Treccani. Ma, se si vuole davvero raccontare quello che è successo — dal punto di vista criminale e sociale — nella Grande Mela dal 1901 al 2001, occorrono tante pagine. Se i lettori avranno pazienza e qualche ora da dedicare a Cent’anni, scopriranno una storia sorprendente, parola mia. Di quelle che abbiamo dentro da sempre, anche se nessuno ce le ha raccontate mai». Una mole di lavoro e ricerca impressionante... «Come sempre, quando comincio a lavorare a un nuovo libro, non ne so molto. Anche per la documentazione occorrono tempo, pazienza e fiducia. Bisogna lasciarsi portare al largo dalle notizie, raccogliere i cocci per provare a ricostruire il vaso interrato. Sono partito da alcune monografie sui “Quattro che vollero farsi re” e sono approdato ai giornali d’epoca, e a un libro meraviglioso sulla NY degli Anni Ruggenti. Ho studiato per un anno e mezzo prima di scrivere una sola riga. E parlo solo della documentazione relativa al primo arco narrativo. Riguardo agli altri due (anni SettantaOttanta e dopo il crollo del Muro) ho le idee abbastanza chiare sulla direzione ma non ho ancora iniziato a studiare. Sarà un lungo, meraviglioso viaggio».
I suoi lettori sono innamorati dello stile Sarasso, eppure qui c’è qualcosa di diverso…
«C’è più musica. Sopra e sottopelle. Quando ho finito il romanzo, ho voluto incorniciarlo con una paradigma inattuale: un album dei Green Day che parla di tutt’altro ma che non smette di risuonarmi in testa da quando è uscito. Nelle passate produzioni, la dominante della mia narrazione era visiva. Adesso credo che i miei libri suonino di più». Da dove viene lei?
«Dalla provincia, come tanti che salirono su quei bastimenti per non tornare più o per tornare troppo presto. Il mio bisnonno ci provò, lo rimandarono indietro. Nella mia famiglia la vulgata diceva che, da impenitente beone scansafatiche l’Achille ci avesse messo sei mesi ad andare in America, sei mesi a tornare e che il mese d’avanzo l’avesse trascorso a bere. Lui non ha mai smentito, ma negli archivi di Ellis Island io l’ho trovato, il Chilìn: aveva preso un’infezione (dagli archivi non si desume altro), ed è rimasto un mese in quarantena».
Einaudi D’Andrea presenta invece La sostanza del male