Vivian Lamarque Quando la poesia allontana il dolore
VIVIAN LAMARQUE, INVERNO NEL CUORE POESIA CHE ALLONTANA LA MALATTIA
I versi E ora, così si fa Neve leggera ti sfiora cade due volte Nessun riflesso oggi? Lirica degli affetti Dialogo tra una figlia e la mamma costretta in un letto d’ospedale Iperrealismo echi di meraviglie Un’autobiografia diviene storia di tutti
sempre vissuta a Milano, Vivian Lamarque, ma del Trentino dove è nata (a Tesero) ha mantenuto un incancellabile imprinting, qualcosa che somiglia a un richiamo della foresta, a una nostalgia pungente per un tempo che non c’è mai stato. Della perduta patria è simbolo, in un certo senso, la neve che lei ama con ostinazione, desidera, aspetta, invoca, né le importa che in città subito si trasformi in sporco acquitrino, purché attraverso la finestra la veda scendere fitta, impalpabile memoria di un incantato tempo mai vissuto. Note, per così dire, trentine che risuonano spesso nelle sue poesie.
Anche nella nuova raccolta di versi, Madre d’inverno (edizioni Mondadori, 138 pagine, 19 euro) si sente soffiare leggera, di tanto in tanto, appena percettibile, l’aria di Tesero: per esempio nel linguaggio della madre, che poi è madre di tutti, oltre che madre sua. Madre che è malata, in ospedale, con accanto la figlia che la va a trovare, e il colloquio tra le due sembra concentrarsi intorno alle piccole cose, al mangiare, al bere, alle medicine, alle vicine di letto, all’ambulanza, all’infermiera, al barelliere. È il marchio dell’autrice, la sua firma quasi, di lei, poetessa dei toni lievi, delle note minime, degli oggetti quotidiani, delle parole senza peso, delle foglie, dei fiori e degli alberi, degli uccelli e dei gatti, delle meraviglie infantili. Somigliano a giochi, a volte i suoi versi, a filastrocche da bambini, ma è solo un modo per dire, senza troppo parere, sottovoce e quasi in tralice, della vita, del dolore, della morte.
Così le piccole cose dell’ospedale, il volerle nominare una per una con puntiglio — concrete e visibili come in un quadro iperrealista — è come se servissero a distrarre il destino, a non lasciarlo farsi avanti, a rimandare a più tardi, a più lontano, l’ora che si sa fatale. Costringe ovviamente il lettore, quella madre, a ricordarsi della propria, forse anÈ che lei malata in ospedale e forse il colloquio è stato lo stesso, concentrato sulle picCome cole cose ospedaliere, il termometro, la flebo, il cuscino, pur di non dire o sentir dire altro, di più grave, di più brutto.
La madre d’inverno di Vivian Lamarque a un certo punto si sdoppia, non più una sola bensì due, la prima è quella adottiva, l’altra è quella biologica (e siamo nell’autobiografia dell’autrice); ma non c’è una preferita, un numero uno e un numero due: sono l’archetipo di mamma, sua, nostra, vostra. Poi ritorna la neve, a coprire, a pulire, a quietare: «E ora, così si fa:/d’inverno si nevica!/Che fuori si nevichi dunque/che dentro si guardi nevicare./Neve leggera ti sfiora/cade due volte, cade anche/la neve che fu». Il destino temuto, tenuto lontano, distratto ad arte, alla fine sembra arrivato: «Nessun riflesso oggi?/Oggi nessuno passa?/Visite nessuna qui?/Sola? Anche qui soli?/Soli anche qui?/Soli fino a qui?».