IL «JOBS ACT», TRISTE REALTÀ
Sono tante le cifre che vogliono illustrare tutti i fenomeni legati all’occupazione, ma una cosa resta certa: con il Jobs Act la situazione è peggiorata.
«Mi fido solo delle statistiche che ho provveduto personalmente a falsificare», affermava Churchill, ma sembra che pure la frase, molto nota e spesso riportata, non sia mai stata pronunciata dallo statista inglese. Proprio questa citazione mi ritorna in mente quando parliamo di disoccupazione, tassi d’occupazione e posti vacanti, perché sovente siamo di fronte a interpretazioni delle cifre difficili da capire per il normale cittadino. Non dobbiamo neppure meravigliarci, visto che l’andamento dell’occupazione è fondamentale per le sorti della politica. Con il Jobs Act la situazione poi è peggiorata perché, dopo tanto clamore, il governo ha bisogno di dimostrare la validità delle scelte attuate.
Anche in Alto Adige, nonostante un numero di occupati da sempre elevato e con una miriade di imprese fuori dalle norme della legge 300, sono state scoperte le virtù salutari del Jobs Act, ipotizzando pure di allargarlo a tutti per rilanciare il lavoro. Valutando però i risultati realmente ottenuti e gli strumenti messi in campo, sarebbe comunque opportuna una maggiore cautela, anche perché la nostra realtà non fa testo. Nei primi sei mesi del 2016 il totale delle assunzioni in Italia, pari a 2 milioni 571.618 unità, risulta in calo del 10,51% rispetto al 2015. Indicativi sono poi i rapporti a tempo indeterminato, calati del 33,4 % e il dato delle trasformazioni di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato pari a -36,9 %. Va rilevato che il contratto a tutele crescenti doveva agevolare proprio il lavoro stabile.
Aumentano invece i contratti a termine. Fatto cento il totale dei nuovi rapporti di lavoro, il 25,3% è a tempo indeterminato, il 70,3% a tempo determinato e il 4,4% apprendistato. Sono dati peggiori di quelli del 2014.
Aumentano invece i voucher, la frontiera più avanzata del precariato: ne sono stati venduti quasi 70 milioni nel solo periodo gennaio-giugno 2016, il che rappresenta il 40,1% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e addirittura il 144,7 % in più rispetto al 2014. I contratti stabili che hanno inoltre beneficiato di un sostanziale esonero contributivo nel 2015 sono stati circa 1,5 milioni. Secondo la relazione tecnica della legge di stabilità 2015, sono stati messi in campo complessivamente circa otto miliardi di euro annui per un triennio. In uno studio precedente, il «Nens», l’Associazione nuova economia e nuova società, ha stimato il costo triennale della sola decontribuzione per le casse statali su dati Inps in 18,1 miliardi. I costi al lordo degli effetti fiscali sarebbero pari a 22,6 e 23,4 miliardi, secondo i due diversi studi.
Visti gli incentivi messi in campo e l’andamento delle assunzioni dopo la loro riduzione, lascia ampio spazio al dubbio il fatto che l’incremento dell’occupazione nel 2015 sia probabilmente legato al loro utilizzo e, in misura molto ridotta, al Jobs Act. Poi ognuno è libero di interpretare i dati secondo la propria convenienza.
Un argomento forte era (e rimane) il confronto sul livello di tutela del lavoro tra i vari Paesi europei. L’Italia sembrava del tutto fuori dalla media. Tralasciando gli Stati Uniti, che sono fuori pure dall’«Oil» e che su una scala ipotetica da uno a sei, dove sei è la tutela massima, si colloca a un misero 0,26, l’Italia ha un indice del 2,51 per quanto riguarda la tutela dell’occupazione in caso di licenziamenti individuali e collettivi, mentre la Germania, Paese guida in Europa, annovera un 2,87. Sono dati dell’«Oecd» del 2013, cioè prima dell’entrata in vigore del Jobs Act, che sicuramente avrà spostato l’indice italiano ancora di più verso il basso. Solo nei licenziamenti collettivi eravamo accreditati al 3,75, rispetto al 3,68 della Germania. Ma anche su questo terreno l’indice è sicuramente sceso nel 2015.
Se vogliamo uscire da una discussione ideologica e ragionare in maniera pragmatica, mi sembra difficile ipotizzare che spostando i rapporti di forza a favore delle imprese il lavoratore possa guadagnarci: è comunque l’interlocutore più debole e un tasso di disoccupazione strutturale oltre il 10% non potrà mai riequilibrare i rapporti di forza. Nonostante due decenni di interventi sul diritto del lavoro e sulle tutele, la situazione non è cambiata di molto. L’introduzione di forme flessibili di lavoro per aumentare la competitività ha portato a forme di precarietà ormai fuori controllo con un unico obiettivo: abbassare il costo del lavoro, ignorando però che il costo del lavoro può essere anche un incentivo per investire in nuove tecnologie e innovazione. Oggi possiamo affermare che i risultati di quelle scelte non sono molto positivi. Abbiamo perso punti di Pil, ridotto i consumi, allargate le disuguaglianze a favore delle classi più agiate. Anche i prossimi anni saranno contraddistinti dalla stagnazione economica con la quale è impossibile la creazione di opportunità lavorative che, di fatto, non passa attraverso leggi e norme volte ad abbassare le tutele di tutto il mondo del lavoro. Questo semmai incide negativamente sulla fiducia dei dipendenti e deprime i consumi. Ne risultano tendenze deflazionistiche che penalizzano anche le aziende. Abbattere l’articolo 18 e rendere più semplici i licenziamenti senza giusta causa era una battaglia ideologica contro i lavoratori e chi li rappresenta. Le aziende assumono non perché sono meno vincolate dalle norme sul lavoro, ma perché hanno prospettive di crescita.
Risultato negativo L’introduzione di forme flessibili di lavoro ha portato a forme di precarietà ormai fuori controllo