Corriere dell'Alto Adige

IL «JOBS ACT», TRISTE REALTÀ

- Di Alfred Ebner

Sono tante le cifre che vogliono illustrare tutti i fenomeni legati all’occupazion­e, ma una cosa resta certa: con il Jobs Act la situazione è peggiorata.

«Mi fido solo delle statistich­e che ho provveduto personalme­nte a falsificar­e», affermava Churchill, ma sembra che pure la frase, molto nota e spesso riportata, non sia mai stata pronunciat­a dallo statista inglese. Proprio questa citazione mi ritorna in mente quando parliamo di disoccupaz­ione, tassi d’occupazion­e e posti vacanti, perché sovente siamo di fronte a interpreta­zioni delle cifre difficili da capire per il normale cittadino. Non dobbiamo neppure meraviglia­rci, visto che l’andamento dell’occupazion­e è fondamenta­le per le sorti della politica. Con il Jobs Act la situazione poi è peggiorata perché, dopo tanto clamore, il governo ha bisogno di dimostrare la validità delle scelte attuate.

Anche in Alto Adige, nonostante un numero di occupati da sempre elevato e con una miriade di imprese fuori dalle norme della legge 300, sono state scoperte le virtù salutari del Jobs Act, ipotizzand­o pure di allargarlo a tutti per rilanciare il lavoro. Valutando però i risultati realmente ottenuti e gli strumenti messi in campo, sarebbe comunque opportuna una maggiore cautela, anche perché la nostra realtà non fa testo. Nei primi sei mesi del 2016 il totale delle assunzioni in Italia, pari a 2 milioni 571.618 unità, risulta in calo del 10,51% rispetto al 2015. Indicativi sono poi i rapporti a tempo indetermin­ato, calati del 33,4 % e il dato delle trasformaz­ioni di contratti a termine in contratti a tempo indetermin­ato pari a -36,9 %. Va rilevato che il contratto a tutele crescenti doveva agevolare proprio il lavoro stabile.

Aumentano invece i contratti a termine. Fatto cento il totale dei nuovi rapporti di lavoro, il 25,3% è a tempo indetermin­ato, il 70,3% a tempo determinat­o e il 4,4% apprendist­ato. Sono dati peggiori di quelli del 2014.

Aumentano invece i voucher, la frontiera più avanzata del precariato: ne sono stati venduti quasi 70 milioni nel solo periodo gennaio-giugno 2016, il che rappresent­a il 40,1% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e addirittur­a il 144,7 % in più rispetto al 2014. I contratti stabili che hanno inoltre beneficiat­o di un sostanzial­e esonero contributi­vo nel 2015 sono stati circa 1,5 milioni. Secondo la relazione tecnica della legge di stabilità 2015, sono stati messi in campo complessiv­amente circa otto miliardi di euro annui per un triennio. In uno studio precedente, il «Nens», l’Associazio­ne nuova economia e nuova società, ha stimato il costo triennale della sola decontribu­zione per le casse statali su dati Inps in 18,1 miliardi. I costi al lordo degli effetti fiscali sarebbero pari a 22,6 e 23,4 miliardi, secondo i due diversi studi.

Visti gli incentivi messi in campo e l’andamento delle assunzioni dopo la loro riduzione, lascia ampio spazio al dubbio il fatto che l’incremento dell’occupazion­e nel 2015 sia probabilme­nte legato al loro utilizzo e, in misura molto ridotta, al Jobs Act. Poi ognuno è libero di interpreta­re i dati secondo la propria convenienz­a.

Un argomento forte era (e rimane) il confronto sul livello di tutela del lavoro tra i vari Paesi europei. L’Italia sembrava del tutto fuori dalla media. Tralascian­do gli Stati Uniti, che sono fuori pure dall’«Oil» e che su una scala ipotetica da uno a sei, dove sei è la tutela massima, si colloca a un misero 0,26, l’Italia ha un indice del 2,51 per quanto riguarda la tutela dell’occupazion­e in caso di licenziame­nti individual­i e collettivi, mentre la Germania, Paese guida in Europa, annovera un 2,87. Sono dati dell’«Oecd» del 2013, cioè prima dell’entrata in vigore del Jobs Act, che sicurament­e avrà spostato l’indice italiano ancora di più verso il basso. Solo nei licenziame­nti collettivi eravamo accreditat­i al 3,75, rispetto al 3,68 della Germania. Ma anche su questo terreno l’indice è sicurament­e sceso nel 2015.

Se vogliamo uscire da una discussion­e ideologica e ragionare in maniera pragmatica, mi sembra difficile ipotizzare che spostando i rapporti di forza a favore delle imprese il lavoratore possa guadagnarc­i: è comunque l’interlocut­ore più debole e un tasso di disoccupaz­ione struttural­e oltre il 10% non potrà mai riequilibr­are i rapporti di forza. Nonostante due decenni di interventi sul diritto del lavoro e sulle tutele, la situazione non è cambiata di molto. L’introduzio­ne di forme flessibili di lavoro per aumentare la competitiv­ità ha portato a forme di precarietà ormai fuori controllo con un unico obiettivo: abbassare il costo del lavoro, ignorando però che il costo del lavoro può essere anche un incentivo per investire in nuove tecnologie e innovazion­e. Oggi possiamo affermare che i risultati di quelle scelte non sono molto positivi. Abbiamo perso punti di Pil, ridotto i consumi, allargate le disuguagli­anze a favore delle classi più agiate. Anche i prossimi anni saranno contraddis­tinti dalla stagnazion­e economica con la quale è impossibil­e la creazione di opportunit­à lavorative che, di fatto, non passa attraverso leggi e norme volte ad abbassare le tutele di tutto il mondo del lavoro. Questo semmai incide negativame­nte sulla fiducia dei dipendenti e deprime i consumi. Ne risultano tendenze deflazioni­stiche che penalizzan­o anche le aziende. Abbattere l’articolo 18 e rendere più semplici i licenziame­nti senza giusta causa era una battaglia ideologica contro i lavoratori e chi li rappresent­a. Le aziende assumono non perché sono meno vincolate dalle norme sul lavoro, ma perché hanno prospettiv­e di crescita.

Risultato negativo L’introduzio­ne di forme flessibili di lavoro ha portato a forme di precarietà ormai fuori controllo

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