«Così sono scampato all’inferno del Lager»
Congresso Aned, il sopravvissuto racconta: «Un mese in via Resia, giorni indelebili»
BOLZANO Sono trascorsi 73 anni dal suo ritorno da Mauthausen: eppure, Ennio Trivellini non ha dimenticato nulla di quel periodo. Oggi, a 89 anni, ricorda ancora ogni singolo particolare della sua deportazione: un viaggio che da Verona, prima di giungere in Austria, lo ha portato anche nel lager di Bolzano.
Trivellini, originario di Verona, è stato tra gli ospiti del congresso nazionale dell’Aned, l’associazione nazionale ex-deportati nei campi nazisti, iniziato ieri in municipio e che terminerà domani, con l’elezione del presidente e dei nuovi organismi dirigenti.
«All’epoca ero uno studente di 16 anni che non sopportava i fascisti — ricorda Trivellini — Mi schierai contro di loro. Venni denunciato per delazione, catturato e consegnato alle Ss. È iniziato lì il mio viaggio verso l’inferno: in un primo momento sono stato in prigione a Verona, poi a Forte San Leonardo, dove ho ritrovato prigioniero anche mio padre. Insieme, ci mandarono a Bolzano, dove sono rimasto per circa un mese. Il lager non era un posto dove venivano perpetrate sevizie: i prigionieri erano amministrati da italiani, le Ss erano poco presenti. Mio padre venne assegnato alla falegnameria, io invece al reparto prigionieri pericolosi: non so come, riuscì a fare assegnare anche me al suo reparto, così divenni il suo aiutante. Trascorsi quei trenta giorni sempre insieme a mio padre: realizzammo la porta principale di accesso alla prigione del campo. Poi ci spedirono a Mauthausen».
E qui, la voce di Trivellini si spezza. «Per arrivare a destinazione viaggiai in uno scompartimento con 70 persone — prosegue commosso — Si stava seduti a turno, per il male alle gambe. Tre giorni così, senza servizi igienici, senza mangiare. Non abbiamo mai sofferto troppo la sete, avevamo freddo e subivamo lo strazio di stare sempre in piedi».
Nel lungo periodo di prigionia, un pensiero fisso però ha concesso a Trivellini di trovare la forza per andare avanti. «Non ho mai avuto dubbi che sarei tornato a casa — sorride — anche se alla fine della guerra non mi reggevo più in piedi. Non ragionavo più, perché la fame ti riduce in stato di idiozia: lavoravamo dodici ore al giorno, a pranzo mangiavamo uno scodellone di rape da foraggio bollite, a cena una pagnotta in dodici. Era una dieta calcolata per una sopravvivenza di 6 o 7 mesi: sono vivo perché è finita la guerra. Per anni sono riuscito a estraniarmi da questi ricordi: quando ne parlavo, lo raccontavo come un qualcosa che mi avevano raccontato altri».
La mattinata di ieri è stata aperta dal sindaco, Renzo Caramaschi, insieme al presidente di Aned Dario Venegoni. «I giovani italiani hanno lacune molto gravi sulla storia della deportazione — ha sottolineato Venegoni — Due ragazzi su tre, pur riconoscendo nel fascismo una dittatura, sottolineano la capacità di aver fatto anche “tante cose buone”». Un elemento, dice, «che deve preoccupare».