PIZZA, SPAGHETTI E VECCHI CLICHÉ
Identificare un popolo con una pietanza che lo marchierebbe in modo indelebile è il primo vagito di un razzismo non sempre inconsapevole. Il repertorio è vasto. Per limitarci a una rapida rassegna, gli italiani vengono chiamati altrove garlics, los polpettos, Spaghettifresser (il verbo fressen si adopera per designare il modo di alimentarsi degli animali), pastar (parola croata che significa mangiatore di pasta) e ovviamente secondo la pietanza regina: la pizza. Anche gli Schützen di Laives venerdì non hanno trovato niente di meglio che ricorrere a un cliché del genere, intitolando la serata dedicata al presunto rischio di «italianizzazione» delle scuole di lingua tedesca «Pizza im Kopf» (pizza in testa). La banalizzazione, purtroppo, non si è però fermata al titolo. Tutto l’andamento del dibattito ha ricalcato posizioni da decenni utilizzate al fine di metterci in guardia davanti al pericolo di un’eccessiva contaminazione linguistica in orario scolastico, soprattutto se forzata con le subdole armi della didattica integrata (sul banco degli imputati il Clil, moderno succedaneo della mai troppo vituperata immersione). In modo apertamente contraddittorio, tali sperimentazioni sono state così decretate sia insufficienti a migliorare la competenza linguistica dei ragazzi, sia minacciose per la preservazione della loro monolitica (e mitologica) identità culturale. Punto di vista ideologico, lontanissimo ormai dalla mutata realtà sociale del Sudtirolo, e soprattutto incapace di affrontare un fenomeno che, specie in luoghi dove di fatto esiste un plurilinguismo diffuso (determinato anche da una cospicua presenza di cittadini provenienti da altre parti del mondo), avrebbe bisogno di essere trattato con ben altra sensibilità e una molteplicità di strumenti, non certo auspicando il ritorno ai bei tempi in cui la rigida divisione dei gruppi linguistici poteva almeno avere una giustificazione storica. La realtà cambia, dunque, ma in certi ambienti gli atteggiamenti restano gli stessi, questo il succo non esaltante di quanto ascoltato a Laives. Un’occasione mancata anche dal sindaco Bianchi, infine, il quale non solo ha snobbato l’evento, ma l’ha commentato su Facebook distanziandosi dallo stereotipo gastronomico con un altro stereotipo di uguale natura: «Altro che pericolo di italianizzazione, la serata avrebbero dovuto intitolarla Kebab in testa». Come a ricordarci, insomma, che alla fine i problemi non sono mica attribuibili a noi litigiosissimi autoctoni, bensì a chi è arrivato qui da poco.