PRIMO MAGGIO SOLIDALE
Ancora oggi servono maggiore solidarietà e una forte consapevolezza nel rivendicare i diritti individuali e quelli collettivi, sia in Italia, sia a livello globale.
Se vogliamo salvare l’idea europea — nata in contrapposizione alle dittature e ai nazionalismi del ventesimo secolo che hanno prodotto due guerre disastrose — vanno affrontati i problemi legati alla giustizia e all’equità sociale. Il cittadino si sente sempre più vittima della globalizzazione e delle scelte imposte dai «poteri forti» che hanno prodotto diseguaglianze ormai insostenibili. Gli effetti sono evidenti: la sensazione sempre più diffusa di vivere in un sistema economico e politico ingiusto, dove è in atto uno spostamento della risorse dal basso verso l’alto. Un mondo dove non si discute sull’accumulo delle grandi ricchezze e dove, a causa di un’ideologia liberista, si punta il dito sui più deboli, facendoli passare per parassiti a carico della collettività. Si fa largo l’idea che troppi aiuti, in caso di perdita del lavoro, disincentivino la ricerca di un’occupazione. Come anche l’idea che il taglio degli ammortizzatori sociali possa invogliare le persone a impegnarsi, ignorando volutamente che, anche facendo così, le opportunità non migliorano di certo. La mancanza di risorse, infatti, non permette al singolo, ma neppure ai suoi figli, di finanziarsi un percorso d’istruzione adeguato o una formazione permanente in grado di migliorare la professionalità, condizione primaria per aumentare lo status sociale.
Per realizzare tali strategie i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori vanno ridotti e il peso del sindacato ridimensionato. Il risultato: egoismi, regionalismi, razzismi e tentativi di chiudersi nel proprio piccolo mondo, che non riguardano solo gli Stati, ma subentrano anche nella mente di molti cittadini, condizionandone il modo di vivere, la quotidianità, la vita sociale e politica, i rapporti interpersonali.
La solidarietà del mondo del lavoro in parte rischia di frantumarsi e, come insegna la storia, sono proprio le lavoratrici e i lavoratori, assieme alle fasce più deboli, a cadere per primi nel tranello della destra. Così, ormai, ogni elezione in Europa è diventata un rischio per la democrazia. La crescente arroganza delle forze populiste, il loro linguaggio crudo e la disillusione degli elettori verso la politica rappresentano una rottura rispetto alle logiche politiche ed economiche degli ultimi decenni. Continuano ad aumentare le persone che disertano le urne oppure vi proiettano tutte le loro frustrazioni e preoccupazioni. Un voto, quindi, contro il sistema e le forze che lo governano. La politica è vista come una piovra al servizio dei potenti, incapace a dare risposte. Gli Stati Uniti, la Brexit, il referendum costituzionale in Italia e la Turchia ormai lontana dalle logiche di uno Stato democratico moderno dovrebbero far riflettere. Invece ci si accontenta del risultato di Van der Bellen in Austria, della mancata vittoria di Wilders in Olanda e del ballottaggio francese tra Macron e la Le Pen (sic!). Poi si ignora che il 40% ha votato, di fatto, contro l’Europa e le sue élite. Se il nuovo presidente si chiamerà Macron — come auspicabile — ciò sarà frutto di un’alleanza trasversale, dettata più dalla paura della destra nazionalista, che non da una scelta strategica.
In Italia, invece, si profila un successo del Movimento 5 Stelle, che nel suo programma si scaglia contro le forze politiche e sindacali tradizionali, il tutto condito da una forte dose di euroscetticismo. Forse sarebbe meglio parlare piuttosto di uno scampato pericolo e rendersi conto che, proseguendo con le solite strategie, la resa dei conti è solo rinviata.
Intervenire ora non è neppure semplice, perché il vero problema che muove il cosiddetto ceto medio è la paura di tante persone di perdere il proprio «benessere». Agire su timori, emozioni e suggestioni, a volte pure irrazionali, è tutt’altro che facile. Va superata l’idea di dover puntare solo sul mercato per il rilancio dell’economia, escludendo il mondo del lavoro e chi lo rappresenta. Questa logica ha prodotto guasti profondi che vanno sanati rapidamente. Le forze politiche, sindacali e sociali che credono nei valori di un’Europa democratica devono convincersi a fare scelte innovative ed eque, capaci di produrre una maggiore fiducia nei cittadini che rappresentano. Solo mettendo in campo un progetto contro la precarietà e a favore dei diritti si possono ridimensionare gli spazi dei nazionalisti e populisti di destra.
A mio avviso, inoltre, serve una distribuzione più equa della ricchezza. Non possiamo tollerare un sistema nel quale gli interessi delle imprese e dei mercati finanziari valgono più del destino delle donne e degli uomini. In tale ottica credo che il Primo maggio sia una data più attuale che mai. L’idea nasceva nel lontano 20 luglio del 1889 a Parigi, quando si pensava a «una grande manifestazione organizzata per una data stabilita, in modo che simultaneamente in tutti i Paesi e in tutte le città, nello stesso giorno, i lavoratori chiederanno alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore». La scelta cadde sul primo giorno del maggio 1890 e, visto l’insperato successo dell’iniziativa, si ripete ogni anno.
Ancora oggi servono una maggiore solidarietà e una forte consapevolezza nel rivendicare i diritti individuali e quelli collettivi, non solo in Italia, ma anche a livello globale. Ripercorrendo gli ultimi decenni si sono rivelate — come del resto sono tuttora — strategie vincenti. Le condizioni di vita dal maggio del 1890 sono cambiate radicalmente, ma valori come solidarietà e consapevolezza di fronte alla frammentazione del lavoro sono tornati di grande attualità. Non possiamo fermare il vento della modernità, ma dobbiamo partecipare al cambiamento, condizionando le scelte a favore del mondo del lavoro. Un buon Primo maggio a tutti.