«Sequestro di persona, noi non c’entriamo»
Dedej e Vrapi si difendono. Longobardi: nessuna minaccia. Il retroscena: ricatto e sconto
Quella sera, il 23 settembre 2016, loro c’erano, ma «con il sequestro non c’entriamo nulla». È una difesa a tutto campo quella dei due giovani albanesi, Kreshnik Dedej e Enea Vrapi, difesi dall’avvocato Francesco Moser, arrestati dai carabinieri della compagnia di Borgo, insieme ad altri due amici, per sequestro di persona finalizzato all’estorsione e rapina in concorso. Ieri mattina sono stati sentiti dai gip di Verona e Mantova, dove sono detenuti, e hanno raccontato la loro verità. «Conosciamo Fethau perché è un nostro connazionale — hanno spiegato — quella sera ci ha detto che doveva andare a prendere due suoi amici, prima è salito in macchina Longobardi e poi il ventiduenne, ma non c’è stata alcuna minaccia, non almeno quando eravamo presenti noi». I due hanno raccontato che tutti insieme erano andati in un bar a Gardolo ma loro erano rimasti fuori a fumare una sigaretta. «Di quello che è successo nel locale non sappiamo nulla — hanno detto — poi siamo andati in un campo a Pergine, Fethau e gli altri due sono usciti dall’auto, noi siamo rimasti in macchina, stavano parlando, ma non abbiamo notato nulla di illecito». Non ci sarebbe stata alcuna violenza quindi, così hanno detto i due e così ha ribadito anche Vincenzo Longobardi al gip di Mantova. Il giovane, difeso dagli avvocati Luca e Giorgio Pontalti, ha spiegato che Fethau gli aveva detto di aver un credito con un ragazzo. «Mi ha proposto di fingere che era mio il credito e non suo — ha chiarito — e così ho fatto, abbiamo parlato con il papà del ragazzo, gli abbiamo spiegato che il figlio aveva un debito di 7.000 euro e lui ha detto che ci avrebbe pensato lui». Nessuna coercizione quindi; se giuridicamente si è trattato di un sequestro il trio non ne aveva la percezione. Così si difendono i tre giovani, mentre Enrik Fethau, rappresentato dall’avvocato Claudio Robol, ha scelto il silenzio. Intanto dall’inchiesta affiorano nuovi retroscena. I presunti sequestratori avevano applicato uno «sconto» al genitore del ragazzo. Bontà loro, avevano deciso — ricostruiscono i carabinieri — di tenersi il cellulare del ventiduenne, del valore di circa 500 euro, scontando quindi il prezzo del riscatto sceso così 6.500 euro.