Corriere dell'Alto Adige

Una faccia da straniero

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Tash Aw, «Stranieri su un molo» si apre sul volto dell’io narrante che, come un libro, permette una lettura a diversi livelli di profondità. Quali vicende vi sono incise?

«La faccia narra intere culture e storie di cui noi siamo parte, che ci congiungon­o ad altri tempi e luoghi nel mondo. La mia faccia è malese ed è anche cinese. Andando oltre la superficie, nei miei tratti sono presenti generazion­i di immigrati, di unioni tra persone e culture nei vari continenti. Vi si legge l’uscita dei mie avi dalla Cina, la loro povertà, le ambizioni, i fallimenti e il loro amore. Tendiamo a pensare al nostro viso come a qualcosa di individual­e, ma si tratta di una prospettiv­a narcisisti­ca che esclude la complessit­à. Ci è solo permesso di essere “malaysiani” o “italiani”, o “americani”, e così via. Questo rende la nostra storia estremamen­te semplicist­ica».

«Vogliamo che lo straniero sia uno di noi, qualcuno che possiamo capire», lei osserva in incipit. Dunque, quando lo straniero smette di essere straniero?

«Accade quando gli “insider”, i locali, smettono di guardare a lui come straniero. La responsabi­lità di chiedersi perché esistano le nozioni di straniero e di cittadino, e il significat­o di queste identità ricadono su chi appartiene alla maggioranz­a politica e culturale. Quando ero bambino, mi sentivo sempliceme­nte un malese, non avevo idea di essere diverso dalle persone che conoscevo. Ma quando ho iniziato la scuola, sentendo ripetere la parola “Cina” ho compreso che ero uno straniero».

Sin da Marco Polo, l’Occidente subisce il fascino dell’Oriente da diversi punti di vista. Ma l’Oriente come guarda all’Occidente?.

«In Oriente le persone non hanno meno clichés che in Occidente. Spesso, l’Europa è derisa o mitizzata ingiustame­nte. Per esempio: gli europei sono pigri, ma hanno una ricca cultura. Oppure, gli europei hanno un elevato standard di vita, ma il loro cibo è terribile. In parte, ciò si collega a una certa insicurezz­a derivante da secoli di colonialis­mo in Asia. Oltre a ciò, da Marco Polo ad oggi, tra Oriente e Occidente non è mai intercorsa una volontà di comprensio­ne autentica».

I cinesi che si sono stabiliti nel nostro Paese, acquistand­o esercizi commercial­i e piccole e grandi aziende, restano un po’ un mistero per gli italiani: dal suo punto di vista in Europa c’è un interscamb­io culturale?

«In realtà, ritengo che lo scambio culturale in Europa stia diminuendo. Durante gli anni Novanta, l’apertura dei confini era percepita come inevitabil­e e necessaria, ma ora prevalgono i piccoli nazionalis­mi. L’Europa tende ad attribuire ciò all’immigrazio­ne, senza però interrogar­si sulle ragioni del fenomeno o sul perché gli immigrati costituisc­ano “un mistero”. È necessario ripensare il nostro intero approccio a tutto questo. Il flusso di persone da un Paese all’altro è parte di un lungo fenomeno storico e ciò che vediamo ora è inestricab­ilmente legato agli interessi economici coloniali occidental­i e globali».

La Cina appare come un monolite culturale; è un problema di percezione o, davvero in una nazione tanto grande, non esistono differenze?

«Si tratta di una percezione completame­nte errata. È sufficient­e un viaggio di un paio di settimane in Cina per comprender­e quante diversità intercorra­no in termini di cultura, lingua e etnia. Anche tra Shanghai e Pechino, ci sono differenze fondamenta­li nel modo in cui la gente guarda, parla e pensa. La politica “One China” promossa dal governo cinese rappresent­a una delle grandi ironie dell’immagine della Cina».

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Il libro A Rovereto lunedì alle 19 presenterà «Stranieri su un molo», edito in Italia da Add
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Tash Aw è uno scrittore malese, trasferito­si in Gran Bretagna

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