«Come ho incontrato i pesci» Sinfonia tra memoria e fantasia
Il racconto di in libreria da venerdì per Diviso in tre parti lascia trapelare il destino dell’autore ceco
Una sinfonia unitaria, che con naturalezza sa intrecciare memoria, quotidiano, immaginazione. Il tutto sorretto da una prosa diretta, a tratti quasi istintiva, capace di attingere ai fecondi territori del mito, in cui anche vodník, l’omino delle acque, può esistere. Frasi brevi, descrizioni affidate a pochi incisivi tratti, dialoghi essenziali. Nel sottofondo, accanto a quella dell’io narrante, si impara a sentire la voce dell’acqua anche quando l’acqua non c’è. Perché è nell’acqua che vivono i pesci, perché ogni capitolo inizia con il disegnino di un pesce, perché l’incipit del libro non porta fuori strada: «Per un pescatore non c’è cosa migliore che cominciare a far conoscenza coi pesci da piccolo».
S’intitola Come ho incontrato i pesci, il libro di Ota Pavel (Praga, 1930-1973) che da venerdì sarà in libreria per Keller editore, nella traduzione dal ceco di Barbara Zane. E tutto il romanzo, in qualunque pagina lo si apra e di qualunque tema si stia trattando, è un incontro con i pesci.
Lo è anche quando sullo sfondo scorre la grande storia, quella della Seconda guerra mondiale, e il protagonista, quasi si trattasse di un inciso, osserva: «Ormai vivevo solo con la mamma, gli altri erano in campo di concentramento». Ecco, persino in questo caso, senza un apparente coinvolgimento emotivo, prosegue: «Le carpe non le conoscevo ancora abbastanza». E in un passo successivo osserva che la mamma «soffriva enormemente solo perché un giorno davanti a Dio aveva sposato un ebreo e ora davanti al mondo non voleva separarsene». Subito dopo, il pensiero va alla dispensa, dove «nel catino di terracotta nuotava l’ultima carpa che avevo preso. Andava di qua e di là per brevi tratti, quando sbatteva il muso torpido sulla parete di pietra, tornava indietro».
Perché se la pesca è una grande passione che lo accomuna al padre e allo zio, per il protagonista essa rappresenta anche molto di più. Da un lato è la porta d’accesso all’interiorità, dall’altro alla conoscenza dei ritmi della natura, «con il suo linguaggio diretto e chiaro che parlava solo di bellezza, d’amore, di odio, di nutrimento, di morte. Come se qualcuno vi avesse cancellato le cose non fondamentali».
Forse è questa una delle più affascinanti metafore del libro, perché un’analoga preziosa essenzialità caratterizza anche Buštehrad — paesino ceco a pochi chilometri da Praga dove durante la guerra Ota Pavel si trasferisce con la famiglia. Siamo in Cecoslovacchia, e in modo simile a quanto accade ne La morte dei caprioli belli, anche in Come ho incontrato i pesci, Pavel fa assaporare al lettore l’incanto del suo mondo che pone al centro proprio Buštehrad, piccolo borgo in cui esistono due stagni, divisi dall’argine, dai pioppi, dalla strada. «Lo Stagno Nuovo non mi aveva mai attratto. Aveva delle rive fredde, per lo più di pietre e di mattoni. Lo Stagno Vecchio era diverso. Aveva una parte delle rive ricoperte di cinquefoglie. Profumava del ruscello che vi finiva dentro dopo essere passato accanto all’osteria degli Oplt, e puzzava dei liquami che scendevano dai fabbricati rurali».
Insopprimibile, dunque, è il valore della memoria, la «terra dove non annotta» cantata da Montale. Un valore che il protagonista scopre quando, ormai più in là negli anni, torna con la mente al pomeriggio in cui zio Prošek gli costruisce la prima canna da pesca da provare sul fiume Berounka: «In quel momento non sapevo che quella era la mia canna più preziosa, ma oggi lo so. Era la canna dell’infanzia, che non avrebbe mai potuto essere eguagliata».
Quasi senza soluzione di continuità, poche righe più in basso è la prosa, quasi l’epica del quotidiano a conquistare nuovamente spazio: «Era prima di mezzogiorno, il sole scaldava. Avevo attaccato un verme e avevo lanciato la lenza. Non abboccava niente». Ed ecco, nell’attesa che il rito della pesca si compia, il narratore sorprende con un nuovo iato, aprendo le feconde ali dell’immaginazione: «Nella mia testa avevo alzato le vele e ordinato al capitano di salpare, di farsi trascinare sulla superficie da un bel pesce colorato».
Diviso in tre parti — Infanzia, Un giovane uomo coraggioso, Ritorni —, nel capitolo conclusivo il racconto lascia trapelare anche l’amaro destino che attende l’autore. I primi segni della malattia, che lo costringerà a una lunga serie di ricoveri, appaiono nel 1964, ma inizia al contempo il periodo più creativo per la sua scrittura con la produzione di libri indimenticabili tra cui La morte dei caprioli belli e Come ho incontrato i pesci, editi entrambi da Keller. «Sono impazzito alle Olimpiadi invernali di Innsbruck — annota in Epilogo —. Mi si è offuscato il cervello come se fosse scesa la nebbia dalle Alpi (…) Via Dolní Dvo išt mi avevano spedito ai dottori cechi. Questo primo periodo non è stato terribile per me, ma è stato terribile per quelli che mi osservavano e che mi volevano bene (...) La cosa peggiore è quando con l’aiuto dei farmaci ti riportano a uno stato in cui ti rendi conto che sei pazzo».
Sopravvivere a Sarajevo. Condizioni urbane estreme e resilienza: testimonianza di cittadini nella Sarajevo assediata (1992-1996), Bébert edizioni (editing curato da Nicole Corritore Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa). È la traduzione italiana, uscita ad aprile e già in ristampa, di Art of Survival, un libro sull’arte di sopravvivere a Sarajevo durante l’assedio attraverso le voci di chi ha scelto la cultura come arma di resistenza. La presentazione del volume, come spiega Marco Abram, ricercatore di Obct, fa parte del progetto europeo Testimony - Truth or Politics. The Commemoration of the Yugoslav Wars, che si propone di riflettere pubblicamente sulla dissoluzione jugoslava portando al centro le testimonianze individuali di chi il conflitto l’ha vissuto da combattente o opponendo resistenza. «L’Osservatorio è coinvolto come unico partner italiano in questo progetto sostenuto dall’Unione europea all’interno dei programmi sulla memoria — prosegue Abram —. L’occasione per lanciare l’iniziativa si collega ai 25 anni dall’inizio delle guerre di dissoluzione iugoslava, e coinvolge otto realtà tra Serbia, Austria, Germania, Italia, Bosnia. L’obiettivo: mettere insieme alcune esperienze già svolte, per l’Osservatorio è il progetto Cercavamo la pace del 2013-2014». Uno dei principali risultati di questa collaborazione è la mostra di arte contemporanea che vede coinvolti 16 artisti e che sarà inaugurata in anteprima europea il 17 novembre a Trento alla Boccanera Gallery. Raggiungerà poi Belgrado, Sarajevo, Vienna. L’11 dicembre si svolgerà una tavola rotonda organizzata da Obct con la Fondazione museo storico trentino.