«Marco Bergamo? Un insospettabile»
Parlano i poliziotti che fermarono il serial killer. Mamani: mai identificato prima
«Era una persona totalmente sconosciuta, mai identificata prima: un insospettabile». Così il dirigente della Questura Stefano Mamani, allora capo della squadra Volante, e l’ispettore capo Alessandro Arervo, allora capopattuglia che si occupò dell’arresto, ricordano il killer Marco Bergamo, morto per un’infezione polmonare mentre scontava il carcere a vita per l’uccisione di cinque donne. L’ultimo fatto permise di risalire a lui tramite l’auto.
BOLZANO «Era una persona totalmente sconosciuta, mai identificata prima». Un insospettabile. Di quelli che, forse, incrociato da una qualsiasi pattuglia, non sarebbe mai stato fermato per un controllo. Così il dirigente della Questura Stefano Mamani, allora capo della squadra Volante, e l’ispettore capo Alessandro Arervo, allora capopattuglia ch e si occupò dell’arresto, ricordano il killer Marco Bergamo, morto nei giorni scorsi a causa di una grave infezione polmonare.
Era il 1992, piena estate, e le indagini andavano avanti a ritmo serrato. Da un lato la Volante, guidata dal dottor Mamani, da pochi anni in servizio a Bolzano, e dall’altra la Mobile, coordinata dal dottor Alexander Zelger. «In città c’era una situazione particolarmente tesa, nell’ultimo periodo gli omicidi si erano susseguiti, e il clima non era certo dei migliori», ricorda Mamani. «Si era sviluppata una forma di psicosi, soprattutto negli orari serali, tanto che aumentammo notevolmente il numero di pattuglie. Sul fronte delle indagini si procedeva senza sosta, avevamo stretti rapporti con il mondo della prostituzione che, devo dire, collaborò e ci aiutò molto. Mai, però, nel tempo, uscì il nome di Marco Bergamo».
Fino all’ultimo omicidio, quello di Marika Zorzi. «La prima traccia la raccolse la Volante, rinvenendo i frammenti di un paravento danneggiato. La vittima aveva infatti cercato di opporre resistenza in tutti i modi e, in qualche modo, quella fu la svolta nelle indagini. La Mobile, poi, riuscì a incrociare il residuo con l’autovettura. A questo si aggiunsero altre testimonianze, racconti di urla strazianti udite da abitanti della zona che vennero registrati dai miei uomini», aggiunge ancora Mamani.
Si giunge poi all’auto, al nome di Bergamo. Nella vettura vengono trovati i vestiti insanguinati. Nella sua abitazione, invece, altri elementi che, progressivamente, permetteranno agli investigatori di riannodare anche gli altri delitti rimasti ancora irrisolti.
Ma chi era Marco Bergamo? E come appariva a chi, per anni, gli aveva dato la caccia? «Con noi non si scompose, lo portammo dall’allora sostituto procuratore Guido Rispoli, e confessò solo quando gli elementi a suo carico divennero schiaccianti. Soprattutto — ricorda Mamani — si è rivelato avere un altissimo disprezzo per la vita umana e in particolare per la figura femminile, elementi molto incisivi nella sua psiche. In casi come questi, difficilmente si può pensare a una vera opera di riabilitazione, soprattutto in ambito carcerario. Posso dire — chiosa Mamani — che se fosse tornato anche solo in semi-libertà ci sarebbe stato un altissimo rischio di recidiva».
Chi mise di fatto le manette ai polsi di Bergamo fu l’attuale ispettore capo Alessandro Arervo, allora capopattuglia: «Ho fermato materialmente la vettura al termine della nottata di indagini, ci rendemmo subito conto che ci trovavamo difronte all’autore dell’ultimo omicidio: aveva graffi alle braccia e il vetro dell’auto sfondato dall’interno. Lo portammo dal dottor Rispoli e poi effettuammo la perquisizione: nella sua camera fu rinvenuta una piantina di Bolzano, sulla quale era indicato il percorso da casa di Marcella Casagrande alla scuola evidenziato con un evidenziatore. Ebbi un sussulto: ricordavo il fatto perché intervenni come agente della Volante, e fino ad allora era un omicidio mai stato chiarito avevamo mai identificato l’autore. Alla fine, però, riuscimmo a chiudere il cerchio».