Corriere dell'Alto Adige

IL VALORE DELL’UMANITÀ

- di Giovanni Pascuzzi

L’invito a presenziar­e all’evento mi era giunto via mail a firma «lo staff». Dopo aver comunicato l’impossibil­ità di partecipar­e a causa di pregressi impegni, dallo stesso indirizzo mail mi giunge il rituale messaggio di rammarico per la mancata presenza ma stavolta la firma è «a nome di…».

Le dita sulla tastiera sono partite d’istinto prima che ogni controllo razionale potesse vagliare l’opportunit­à di quello che stavo facendo: ho chiesto la cortesia di conoscere il nome della persona che mi stava scrivendo. Quasi immediatam­ente arriva la risposta: «Buona sera, sono Anna Rossi (nome di fantasia), mi dica»: il tono sembrava quello di chi si aspetta un rimprovero per aver fatto qualcosa di sbagliato. Ma la mia intenzione era tutt’altra: «Grazie gentile Anna. Non mi piace dialogare con qualcosa di impersonal­e come “staff” o “a nome di”. Siamo persone. E volevo ringraziar­e una persona per avermi scritto». Anche la replica è arrivata immediata: «Ma ringrazio io Lei per la gentilezza e... l’umanità, così rara nel mondo (pur iper-connesso) di oggi».

Mi ha molto colpito l’uso della parola «umanità». Spesso ascoltiamo, specie da papa Francesco, denunce contro la disumanità del lavoro: quello che si svolge in condizioni che non garantisco­no i livelli minimi di sicurezza, o che impone turni e orari massacrant­i impedendo di assecondar­e le più elementari esigenze affettive e familiari del lavoratore, o, ancora, che è guidato dai computer che tracciano, secondo per secondo, le attività riducendo gli esseri umani a pesci in un acquario.

Nel caso specifico, però, il concetto di umanità è stato usato in un’accezione diversa: come assoluta spersonali­zzazione di ogni relazione lavorativa. Parlando del lavoro in fabbrica si ricorre ancora oggi al termine alienazion­e per indicare il soggetto che si applica solo alla prestazion­e a lui richiesta: come Charlie Chaplin che stringe bulloni alla catena di montaggio nel film «Tempi moderni». In questa vicenda il richiamo all’umanità ha fatto emergere, in maniera spontanea e gentile, il disagio che nasce dalla richiesta di identifica­rsi con un gruppo o con il nome di un altro. Una forma di spersonali­zzazione che uccide identità e relazione, ovvero l’essenza stessa dell’esistenza.

Forse qualche lettore penserà che quanto segnalato non sia un grande problema. Certamente è un frammento del «disumano» che caratteriz­za la nostra epoca.

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