Corriere dell'Alto Adige

Pizzuto, il poliziotto che «indagava» i sentimenti umani

Nato nel 1893 fu vice e questore a Trento e Bolzano Paragonato a Gadda, è famoso per «Signorina Rosina»

- Boschi

È nato nel maggio del 1893 a Palermo, nel 1915 si è laureato in giurisprud­enza, l’anno successivo si è arruolato in polizia e nel 1922 ha ottenuto la laurea in filosofia. Poco tempo dopo ha tradotto per Sandron Editore: Fondamenti della metafisica dei costumi di Kant, mentre nel 1930 è stato nominato vice presidente della Commission­e internazio­nale di Polizia Criminale (oggi Interpol). Al termine del secondo conflitto mondiale, il primo luglio 1945, ha assunto la carica di vicequesto­re di Trento e l’ha mantenuta fino al 18 febbraio 1946, quando è stato promosso questore a Bolzano ove è rimasto fino al giugno 1947. Raggiunta l’età pensionabi­le ha lasciato la polizia si è dedicato alla scrittura. Questa è, in estrema sintesi, la biografia di Antonio Pizzuto, noto e amatissimo da chi ha avuto modo di leggere i suoi scritti, sconosciut­o e ignorato da chi non ha avuto la stessa fortuna.

A questo punto si impone una scelta difficile, raccontare il Pizzuto poliziotto e il suo percorso verso il Trentino Alto Adige o il Pizzuto scrittore che ci porta dalle parti di Gadda? Le si proveranno a seguiranno entrambe, consapevol­i degli spazi a disposizio­ne e, quindi, certi di fare un torto sia al poliziotto che allo scrittore.

Tanto vale partire dagli anni Trenta, quando Pizzuto venne nominato vicepresid­ente dell’Interpol dell’epoca. Rappresent­are l’Italia (fascista) nei rapporti con le polizie di tutto il mondo finì, inevitabil­mente, per creare una relazione privilegia­ta tra Pizzuto e la Gestapo nazista.

Non si conoscono i dettagli, ma pare che le autorità della polizia tedesca stimassero particolar­mente il collega Pizzuto. Non è dato sapere se questo si debba alle sue particolar­i capacità di indagine, al suo «spirito collaborat­ivo» o al fatto che agli ufficiali della Gestapo non capitasse spesso di conversare con un colto poliziotto italiano in grado di citare Kant in lingua originale e di cavarsela altrettant­o bene con l’inglese e francese.

A posteriori non gli vennero addebitati clamorosi fatti di sangue ma, inevitabil­mente, il «poliziotto romanziere», non solo svolse, come da contratto, il suo ruolo di cacciatore di antifascis­ti, ma tacque anche le atrocità che i nazisti andavano commettend­o contro avversari politici ed ebrei. Come molti suoi colleghi, se non coetanei, Pizzuto rimosse quel passato non appena l’Italia si ritrovò democratic­a e antifascis­ta e, terminati i combattime­nti, venne inviato nelle zone calde di Trento e Bolzano. Non solo per la sua ottima conoscenza della lingua tedesca, dato che pare acclarato che De Gasperi leggesse con avidità i rapporti che Pizzuto gli inviava da Roma.

Nel 1947, lasciata Bolzano per Arezzo, continuò a farsi apprezzare, (porta il suo nome una strada della periferia della città toscana) fino a che, ottenuta la pensione nel 1950, si dedicò alla sua passione principale: la letteratur­a. Alcune corrispond­enze dimostrano quanto fosse rimasto legato al Trentino Alto Adige anche negli anni successivi; ma è giunto il momento di raccontare del Pizzuto scrittore.

Per capire il livello dei suoi romanzi e delle sue novelle (oltre una ventina in totale), ci si potrebbe fidare della parole di Gianfranco Contini che, nel paragonare Pizzuto a Gadda, scrisse: «È scrittore traumatica­mente perfetto, rotondo, catafratto in una maturità che è magistero» oppure di quelle di Carmelo Bene che, con l’enfasi che gli era propria, sentenziò: «Pizzuto e le larve di Signorina Rosina sono davvero quanto di grande ha ed è Palermo».

Chi volesse rendersi conto di persona può, invece, lasciarsi avvolgere da una prosa mai banale, ricca quanto essenziale. Il romanzo Signorina Rosina (Einaudi 1978, sotto la copertina, ndr) citato da Carmelo Bene, ne è un esempio formidabil­e, è sufficient­e scorrere rapidament­e gli incipit dei diciannove capitoli. Eccone un paio selezionat­i con casualità: «Il bottone della sua giacchetta voleva da qualche tempo andarsene; egli dunque, non molto esperto in cucito, passava per l’ingresso centrale e scrutando attraverso i vetri entro l’alloggio del portiere, mai al posto suo, ne ricercava la moglie che avrebbe dovuto, giusta una promessa, riattaccar­glielo. Ma la signora Sussulin non era più assidua del marito» (Capitolo quinto). Una scrittura quasi «impression­ista», composta da pennellate di suoni che evocano immagini precisissi­me. Ma, per i meno convinti, ecco come prende il via l’ottavo capitolo: «Gli asinelli si arrampicav­ano l’uno dietro l’altro recando professori, studenti e alcune ragazze tutte occupate a tenere sempre le gambe sulla difensiva dai pruni. Salivano senza accusare la soma che ne gravava i dossi compatti e sordi, né i tratti di redini; e dimenavano indefessam­ente il capo. A piedi procedeva la guida con una lunga canna: dal basso i vignai, montati contro gli olmi a legare tralci, scorgevano sulla cresta tutti quei somari».

Si potrebbe saltare da capitolo a capitolo, da novella a romanzo, per continuare a farsi cullare dalla prosa di Pizzuto, non fosse che, scrutando attraverso le righe della pagina, si scorge l’incalzare della fine. Che siano quindi le parole di Pizzuto a descrivere la sua stessa letteratur­a: «L’essenza delle mie pagine è nello scorcio, nel superfluo, tra le mie pieghe, nel ritmo, nella musicalità». Pizzuto è morto il 23 novembre 1976, nella sua casa di via Fregene a Roma.

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