LA VITA È SACRA SE SI SPERIMENTA COME UN DONO
La vita è il dono più bello che ci sia. Almeno finché la si sperimenta come un dono. Io giro abbastanza per case di riposo, ospedali, centri per lungodegenti. Ci sono tante persone che soffrono, che fanno fatica a svolgere le più piccole funzioni quotidiane, che dipendono totalmente da altre, o che non hanno nemmeno più la consapevolezza di essere in vita. Tenere in vita una persona che soffre o che persiste in stato vegetativo può essere inteso come un atto di amore da parte dei congiunti. Non altrettanto invece da parte di quell’indotto commerciale che ne ricava profitti da non sottovalutare. Anche papa Francesco ha di recente ricordato che il cosiddetto «accanimento terapeutico» non trova spazio nella dottrina e nella morale della Chiesa. O siamo dinanzi a un tentativo di terapia, oppure, se le prospettive non sono fauste, va evitato l’accanimento che può soddisfare i circostanti ma presumibilmente non chi subisce invasivi trattamenti sanitari.
Il Senato ha infine approvato la scorsa settimana la legge sul testamento biologico, o più correttamente sulle «Dichiarazioni anticipate di trattamento» (Dat). Il testo prevede che sia il singolo cittadino, informato dai medici, a decidere come desidererebbe si procedesse nei suoi confronti in caso non fosse più in grado di intendere e di volere. Era una necessità che avanzava anni fa il teologo moralista e poi vescovo della nostra diocesi Karl Golser. Tale documento per la Dat ora previsto anche in Italia di fatto sancisce una prassi che era già diffusa anche in Italia. Dinanzi alla situazione irrecuperabile di un proprio caro, parenti e medici decidevano in coscienza cosa avrebbe preferito il degente. Così venivano fornite dosi di morfina leggermente superiori al necessario, oppure si disattivavano i macchinari della respirazione o si evitava di applicare un sondino per la nutrizione artificiale.
In passato alcuni gruppi politici, anche su pressione del Vaticano, avevano sostenuto la proposta di legge Cannavò, la quale prevedeva che la decisione ultima su tale delicata materia venisse lasciata al medico curante. Così il morente veniva però esautorato della propria facoltà decisionale. Si capisce sulla base di una certa matrice cattolica come la legge appena approvata abbia provocato la reazione stizzita di vari enti. Pro Vita Onlus e il Forum Famiglie parlano di una «legalizzazione dell’eutanasia» e anche l’Associazione dei Medici Cattolici (Amci) solleva eccezioni circa l’obbligo di applicare le norme pure in strutture private di ispirazione cristiana. La Cei, per bocca di monsignor Giovanni D’Ercole, ritiene le norme «opinabili e discriminatorie», soprattutto perché non si potrebbe considerare la nutrizione e l’idratazione come cure ma come doveri fondamentali per l’essere umano. In seno all’Amci, tuttavia, non tutti son d’accordo. La sezione di Milano afferma che la legge «frutto di un onorevole compromesso, rispetta i dettami della Costituzione e la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue (diritto alla vita e alla salute). Essa rispetta l’autonomia decisionale del malato e al contempo l’autonomia professionale e la responsabilità del medico».
È evidente da queste prese di posizione che la Cei non condivide del tutto le posizioni di apertura espresse dal Papa. Prova ne sia l’Osservatore Romano che presenta in modo pacato la legge come controversa, ma formulata «nel rispetto della Costituzione», in quanto prevede che «nessun trattamento sanitario possa essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata».
Credo che al di là di ogni legge, quello che andrebbe sempre e comunque applicato sia il buon senso. Tutti i singoli casi sono diversi dagli altri. Occorre di conseguenza, direbbe papa Francesco, accompagnare e discernere, in modo da trovare in ogni concreta situazione la forma di cura più opportuna per sostenere la fragilità della persona, sempre ricordando che tutti ci confronteremo con l’ultima frontiera della morte.