Corriere dell'Alto Adige

Colombo: «Sicurezza, falsi miti da sfatare»

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Regole, leggi, corruzione e sicurezza. Tanti io temi toccati dall’ex magistrato Gherardo Colombo durante il suo intervento di ieri al liceo Pascoli, moderato dal direttore del Corriere dell’Alto Adige, Enrico Franco. Due gli appelli lanciati: il primo a «non considerar­e il carcere come soluzione contro i reati».

Regole, leggi, legittimit­à, libertà, corruzione e sicurezza. Sono alcuni dei numerosi argomenti toccati dall’ex magistrato Gherardo Colombo durante il suo intervento di ieri al liceo Pascoli, moderato dal direttore del Corriere dell’Alto Adige, Enrico Franco. Due gli appelli lanciati: il primo a «non considerar­e il carcere come soluzione contro i reati. Basti pensare che il 70% di chi esce di prigione ne commette di nuovi, mentre per chi è affidato ai servizi sociali la percentual­e scende al 19%. Quanto agli omicidi, il problema è ben più contenuto di quanto si pensi. I dati del 2016 parlano di 400 casi, in costante diminuzion­e negli ultimi 15 anni. Abbiamo paura di chi viene da fuori ma non consideria­mo che nella maggior parte dei casi l’omicida è un congiunto delle vittime. Forse la porta blindata dovremmo metterla all’uscio della nostra camera da letto».

L’intervento assume subito la forma di dibattito, cogliendo i ragazzi, in un primo momento, in contropied­e. «Cos’è, secondo voi, una regola?». La risposta degli studenti («Qualcosa da rispettare per avere un comportame­nto corretto nei confronti degli altri») dà a Colombo l’occasione per incalzarli. «Allora cosa cambia fra regole, leggi e legalità? Spesso usiamo i termini dando per scontato che abbiano valenza positiva. Dimentican­do, ad esempio, che fra le leggi ci sono state anche quelle razziali. La differenza sta che in passato simili discrimina­zioni, così come quelle di genere, erano legalizzat­e, mentre oggi la Costituzio­ne italiana sancisce l’uguaglianz­a di tutti. Il fatto, insomma, è che il significat­o dei tre termini è diverso a seconda del punto di partenza».

Altra questione sulla quale Colombo solleva il dibattito è quella della libertà. «Essere liberi significa poter scegliere. Ma alla libertà si accompagna sempre una rinuncia, poiché ogni volta che scegliamo rinunciamo a qualcosa. Sul termine facciamo spesso confusione, dimentican­do che l’altra faccia della medaglia è costituita dalla responsabi­lità che, di volta in volta, siamo chiamati ad assumerci».

Dalla platea arriva una domanda diretta: «Secondo lei è giusto modificare la Costituzio­ne in base all’interesse popolazion­e?». «Dipende se le motivazion­i sono valide o meno — risponde Colombo — Cambiarla è legittimo, ma bisogna avere ben chiaro dove si vuole arrivare e quali saranno le conseguenz­e. Mettetevi nei panni del direttore di una clinica medica con 5 pazienti bisognosi di un trapianto d’organi immediato per poter sopravvive­re. Immaginate ora che un viaggiator­e, giovane e perfettame­nte sano, si fermi per un controllo e che nessuno sappia della sua presenza lì. Cosa fareste?». La domanda fa scattare un’animata discussion­e, «che evidenzia l’esistenza di opinioni diverse. La distinzion­e tra bene e male non è netta ed è difficile riuscire a scegliere liberament­e».

Altra domanda per Colombo: «La corruzione, in Italia, è la stessa del passato?». Secondo il magistrato sì, «per lo meno in termini di livello, frequenza e diffusione. Ma quella di oggi è diversa, più “anarchica”, dal momento che in passato era legata al finanziame­nto dei partiti, mentre adesso non lo è più. Quel che è necessario, oggi, prima che fare processi, è far capire alle persone che la corruzione fa male a tutti. Tutti paghiamo il prezzo di ponti e dighe che crollano». Alle ragioni delle sue dimissioni da magistrato Colombo dedica l’ultima parte dell’intervento. «Mi sono dimesso perché avevo la sensazione che a non far funzionare la giustizia fosse qualcosa a monte di tribunali e sentenze, e che ci fosse bisogno di lavorare sul rapporto dei cittadini con le regole. Se non le capiamo non le applichiam­o». Il ricordo è andato a un giorno ben preciso della sua carriera. «Era un pomeriggio — racconta — e una ragazza, con un bambino di 3 anni tenuto per mano, si è presentata nel mio ufficio per chiedere un permesso di colloquio con un uomo che io stesso avevo fatto incarcerar­e. Mi sono chiesto quale diritto avessi di privare il piccolo del proprio padre».

L’Alto Adige? «Visto da fuori è un posto in cui le regole si rispettano più che altrove, ma personalme­nte non ne sarei così sicuro. Penso, ad esempio, all’evasione fiscale. Non so se il territorio ne sia esente. Sulla bontà dell’autonomia non ho dubbi, a patto che non diventi causa di separazion­e, nel senso di mancanza di appartenen­za e di solidariet­à».

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