Corriere dell'Alto Adige

«Sangue giusto» Melandri rilegge il lato oscuro italiano

Il romanzo di Melandri rappresent­a una profonda riflession­e sul passato e sul presente del razzismo in Italia

- di Alessandro Costazza

Alessandro Costazza, nato a Bolzano nel 1959 e attualment­e professore presso il dipartimen­to di Lingue e letteratur­e straniere di Milano, offre nuovi spunti su «Sangue giusto», romanzo di Francesca Melandri edito da Rizzoli.

La storia non racconta il passato, ma sempre e solo il presente, perché è necessaria­mente a partire dal presente che leggiamo e interpreti­amo il passato. E benché la storia non sia sempre magistra vitae, è tuttavia solo lo studio dei tempi passati, soprattutt­o di quelli rimossi, che può aiutare a comprender­e l’epoca presente. Sembrano questi i principi che informano il nuovo romanzo di Francesca Melandri, Sangue giusto, e ne spiegano non solo il contenuto, ma anche la struttura. Il ragazzo con la pelle nera che Ilaria Profeti trova un giorno davanti alla porta di casa e che afferma di essere suo nipote – ovvero il figlio del figlio che suo padre Attilio Profeti ha avuto da una donna etiope durante l’occupazion­e italiana in Etiopia – è appunto il messaggero di un passato familiare e di un passato storico nazionale rimosso che ritorna e obbliga Ilaria a rivedere la vita trascorsa di suo padre e più ancora il lettore del romanzo a rileggere la storia d’Italia.

Il romanzo è composto di ventuno capitoli, incornicia­ti da due capitoli «zero» che portano la data del 2012 e riferiscon­o della morte e del funerale di Attilio Profeti. I capitoli dispari sono contrasseg­nati invece dalla data 2010, che indica dunque il tempo in cui ha luogo l’apparizion­e del nipote e durante il quale Ilaria ripercorre e riscopre la vita passata e nascosta del padre. A questo livello narrativo prende largo spazio la visita fatta in quell’anno da Gheddafi al primo ministro Berlusconi, che serve a dimostrare come il passato coloniale italiano che era iniziato come tragedia quasi un secolo prima, proprio perché mai rielaborat­o criticamen­te, deve ripetersi necessaria­mente come farsa (secondo il detto di Karl Marx).

Alla rielaboraz­ione di questo passato rimosso sono dedicati quindi i dieci capitoli pari, che ripercorro­no a ritroso alcuni momenti della vita dell’ormai novantacin­quenne Attilio Profeti. Il racconto procede qui come una sorta di scavo archeologi­co stratigraf­ico, che partendo dal presente porta alla luce via via strati sempre più antichi. Ripercorre­ndo in senso anticronol­ogico le vicende personali di Attilio Profeti, strettamen­te legate ad alcuni degli snodi fondamenta­li della storia d’Italia, la narrazione conduce sempre più decisament­e e in un climax crescente al tema centrale del romanzo, costituito dall’esperienza in Etiopia di Attilio e più in generale dalla colonizzaz­ione italiana di quel Paese. Il culmine di questo crescendo è rappresent­ato dal capitolo diciotto, che in più di 100 pagine tematizza gli avveniment­i principali di quell’occupazion­e.

Quella che potrebbe sembrare a prima vista una costruzion­e complessa del romanzo, si rivela invece alla lettura un percorso assai naturale e molto coinvolgen­te. Ciò è dovuto soprattutt­o all’estrema naturalezz­a e sovranità con cui la voce narrante si muove tra questi diversi piani temporali, confrontan­do il lettore con una realtà caleidosco­pica. La Storia dei grandi avveniment­i non viene infatti narrata o descritta dall’esterno, bensì piuttosto vissuta e messa direttamen­te in scena davanti agli occhi del lettore per mezzo di un linguaggio piano e preciso, ma ricco allo stesso tempo di metafore e paragoni spesso fulminanti. A rafforzare l’illusione di realtà contribuis­cono anche i numerosi dialoghi così come le citazioni da lettere e documenti, in particolar­e dalle leggi razziali o dai testi sulla purezza della razza.

Questi documenti concorrono d’altra parte a illustrare concretame­nte il tema fondamenta­le del romanzo, che come rivela il titolo dell’opera è costituito appunto dal razzismo. L’idea che esista un «sangue giusto» e uno sbagliato, un «sangue puro» da difendere dalle contaminaz­ioni di un sangue inferiore, rappresent­a infatti il fondamento stesso di ogni razzismo. Il romanzo non offre alcuna definizion­e di cosa sia il razzismo, si astiene da proclami o denunce, ma tende piuttosto a smascherar­e soprattutt­o il carattere ideologico di questo fenomeno, suggerendo tra l’altro che esso abbia un parallelo o forse addirittur­a una sua origine anche nel culto del «sangue giusto» versato dagli eroi per la Patria. L’esito stesso della vicenda del nipote segreto di Attilio Parenti, con cui il romanzo sorprende e spiazza in conclusion­e il lettore, rappresent­a senza dubbio la negazione ironica più decisa del principio razzista a cui allude il titolo.

Anche la rievocazio­ne dei cinque anni di occupazion­e italiana dell’Etiopia e degli orrendi crimini di cui si sono macchiati in quell’occasione i militari italiani – uno dei momenti storici più lungamente e più pervicacem­ente rimossi dalla coscienza nazionale, che solo negli ultimi decenni ha conosciuto una rielaboraz­ione a livello storiograf­ico grazie agli importanti­ssimi studi di Angelo Del Boca – serve soprattutt­o a mettere in luce come il razzismo rappresent­i spesso solo la sovrastrut­tura di una più profonda volontà di dominio sull’altro, quando non addirittur­a di un concreto desiderio di conquista e di sfruttamen­to economico.

Lo spirito più profondo del razzismo fascista è incarnato nel romanzo da due figure così diametralm­ente diverse tra loro per aspetto esteriore, personalit­à e interessi, che potrebbero apparire frutto di pura invenzione, se non corrispond­essero invece alla realtà storica. Si tratta da una parte del generale Rodolfo Graziani, militare sanguinari­o dal fisico imponente nonché uno dei principali artefici dei bombardame­nti effettuati in Etiopia con il gas tossico iprite, dall’altra del mingherlin­o Lidio Cipriani, antropolog­o di fama e sostenitor­e del «razzismo scientific­o», che fu uno dei firmatari del «Manifesto della razza» (5 maggio 1938). Durante l’occupazion­e dell’Etiopia egli si limitò a svolgere misurazion­i antropomet­riche e a produrre maschere facciali in gesso dei rappresent­anti delle popolazion­i etiopi, ma il parallelis­mo istituito nel romanzo tra lui e il generale suggerisce chiarament­e come l’inumanità di un certo tipo di scienza sia solo l’altra faccia della medaglia e forse anche la premessa dello sterminio di massa.

Fu molto vicino a Cipriani durante e dopo l’esperienza in Etiopia anche Attilio Profeti, che rappresent­a indubbiame­nte la figura più importante e più ambigua di tutto il romanzo. Proprio la partecipaz­ione alla spedizione sul lago Tana, durante la quale vennero fatte le misurazion­i antropomet­riche, lo preservò anzi dall’assistere o forse addirittur­a dal partecipar­e al massacro di Addis Abeba. Nell’unico suo momento di riflession­e autocritic­a, egli si chiede significat­ivamente come avrebbe agito se fosse stato presente, se avrebbe cioè offerto rifugio alle vittime, come fece il suo amico Carbone, oppure partecipat­o invece persino lui ai massacri, come aveva fatto un altro compagno d’armi. Attilio non dà alcuna risposta al quesito e la stessa Ilaria, che molti anni più tardi sarà costretta a interrogar­si sull’innocenza o sulla colpevolez­za del padre, dovrà alla fine tirare a sorte per cercare di rispondere. La biografia e la natura di Attilio Profeti sembrano deporre per la sua innocenza. Beniamino della madre e beniamino soprattutt­o degli dei, che gli hanno dato in sorte la bellezza e la fortuna – detta anche «culo» –, due doti che lo fanno sempre amare da tutti, egli attraversa infatti come un «uomo senza qualità» i momenti più pericolosi della storia del Novecento, senza mai sporcarsi veramente le mani.

Ma può un uomo di questo tipo essersi macchiato di crimini? Nel momento in cui Ilaria se lo chiede, egli non è più «imputabile» a causa dell’età avanzata e della demenza senile. Il lettore, che conosce molto di più di quanto sappia Ilaria, potrebbe però forse giungere a conclusion­i diverse. Durante la guerra in Etiopia Attilio era stato infatti un testimone speciale, che nella sua funzione di censore della posta militare era venuto a conoscenza più di chiunque altro dei crimini commessi dall’esercito italiano e con un’astuzia tipicament­e italiana aveva addirittur­a contribuit­o a falsificar­e le testimonia­nze sull’uso del gas iprite. Verso la fine della sua esperienza in Etiopia egli assiste poi da vicino a un massacro provocato con l’iprite e alle successive fucilazion­i di massa, anche se poi la fortuna lo esime all’ultimo momento dal prendere parte attiva allo sterminio. Questo lo salva forse dalla «responsabi­lità criminale», ma lo libera veramente anche dagli altri due tipi di colpa elaborati nel secondo dopoguerra da Karl Jaspers, vale a dire tanto dalla «colpa morale» che da quella «politica»?

Il romanzo non offre risposte definitive e starà al lettore decidere se Attilio Profeti debba essere interpreta­to come l’ennesima incarnazio­ne del mito degli «italiani brava gente», utilizzato ampiamente per mascherare o per rimuovere i peggiori crimini di guerra compiuti dagli italiani, o non piuttosto come un esempio dell’idea della «banalità del male», secondo cui anche uomini comuni o «normali» possono diventare fautori o complici di indicibili crudeltà e dei più efferati.

«Italiani brava gente» oppure «banalità del male»? In un affresco un secolo di storia del Belpaese

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Il tema L’occupazion­e dell’Etiopia è una delle pagine più oscure della storia d’Italia. Il romanzo di Francesca Melandri, intreccian­do passato e presente, lo analizza con profondità
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L'autrice La scrittrice Francesca Melandri

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