GIOVANI FRAGILI, POTENZIALI BULLI
Si è tornati con insistenza a parlare di scuola, ma non di quella che per decreto si vorrebbe «buona». Alcuni clamorosi atti di bullismo hanno riacceso la luce su un’istituzione alle prese con i problemi di sempre: strutture fatiscenti, ritardo nella dotazione delle nuove tecnologie, carenza di personale, classi numerose, corpo docente molto anziano e mal pagato oggi alla ricerca di una pedagogia e di una didattica capaci di rispondere alle esigenze di una società sempre più plurale e sempre più bisognosa di inclusione e integrazione. È quest’ultimo aspetto a segnalare uno dei fronti più critici e, probabilmente, maggiormente esposti al rischio che prendano piede comportamenti intolleranti nei confronti dei più deboli. La diversità, lo abbiamo imparato, è anche terreno di coltura di pregiudizi, tanto più che sui ragazzi si riflettono — e talvolta si riproducono — discorsi e atteggiamenti di esclusione nei confronti degli «altri», propri della società degli adulti.
A complicare il quadro si somma il tratto comune della condizione giovanile di oggi: la fragilità. Humus su cui crescono potenziali vittime e potenziali bulli. Fragilità che non c’entra con l’intelligenza dei nostri ragazzi, ma ha molto a che fare con il saper vivere. Lo psichiatra Vittorino Andreolli sostiene che i giovani non sanno affrontare le difficoltà affettive e di fronte a una sconfitta, a una frustrazione, possono compiere anche gesti tragici. La scuola, si dirà, è il luogo dell’istruzione, all’educazione dovrebbe pensarci qualcun altro. La famiglia, per esempio. Quale, quella di oggi che sopravvive a fatica, che scarica spesso e volentieri sulla scuola parte dei suoi compiti educativi e fa pagare agli insegnanti per intero il conto dell’eventuale fallimento della formazione dei figli?
Chiediamoci se bisogna ancora credere, come Piero Calamandrei, al miracolo che solo la scuola può compiere. Si riusciranno a trasformare i sudditi in cittadini? Si obietterà che oggi, a differenza dei tempi di Calamandrei, i sudditi non ci sono più. Ma come definirla, se non sudditanza, l’adesione dei giovani (e degli adulti) a modelli culturali che esaltano il primato di un io sempre più ipertrofico e svuotato di sostanza, più virtuale che reale. Padrone e (pirandellianamente) maschera di se stesso. Una bella corsa ad ostacoli sulla strada che porta alla formazione dei nuovi cittadini per una scuola che non smette, pur in affanno, di essere un luogo di mediazione, di pratica del rispetto reciproco e di crescita.