«Capire chi sono? Un passaggio quasi brutale»
Morgana in transizione da uomo a donna: «Al lavoro non ho mai avuto problemi»
TRENTO Morgana Sollaku, lei ha 29 anni e sta portando avanti un percorso di transizione dal sesso maschile a quello femminile. Come è arrivata a maturare questa decisione?
«È stato un processo lungo e laborioso. Provengo da un contesto familiare in cui di queste cose non si parlava, non ero a conoscenza dell’esistenza dell’esperienza transgender né sapevo nulla dell’identità di genere: ci ho messo molto a prendere coscienza di ciò che sono ed è stato quasi brutale. È stato difficile da accettare, ma grazie a un percorso di riflessione interiore e all’aiuto di altre persone ho cominciato a capire cosa poter fare per sentirmi maggiormente me stessa e ho cominciato un percorso di transizione». Quando è successo?
«Ho cominciato a nutrire i primi forti dubbi durante il periodo dell’adolescenza, come nella maggior parte dei casi accade. Per un po’ di tempo, tuttavia, ho tenuto nell’armadio la vera me stessa vestendo
i panni di chi i miei genitori volevano che io fossi. Quando sono andata a vivere da sola e ho raggiunto l’indipendenza economica ho affrontato la situazione con maggiore volontà e forza d’animo: dopo i 22 anni ho capito che dovevo agire, perché soffrivo. Dovevo trovare la vera maniera per essere me stessa». È stato difficile? «No, liberatorio». In cosa consiste il suo percorso di transizione?
«Ho degli obiettivi da raggiungere e mi sto impegnando per farlo: la rettificazione dei documenti, innanzitutto. Sarebbe bello si potesse ottenere anche senza interventi chirurgici invasivi, ma ora succede solo in seguito alla sentenza di un tribunale ed è come mettere una toppa su un paio di jeans strappati. Fra i miei intenti ci sono comunque anche alcuni interventi chirurgici. I percorsi di transizione, tuttavia, non sempre possono avere un punto di partenza o arrivo, non sono lineari, una persona può anche
fermarsi in un punto non definito».
Come è stata accolta, dalla sua famiglia, la sua volontà di essere se stessa fino in fondo?
«Non bene. Tuttora, dopo diversi anni, fatichiamo a parlarne e questo mi fa soffrire terribilmente perché non riesco a condividere con i miei genitori una dimensione di me stessa per me molto importante ma che fra noi ha creato un muro decisamente alto». Sul posto di lavoro, invece,
è andata meglio?
«Ho la fortuna di lavorare per un’azienda che fa parte di una multinazionale che ha fatto proprie le varie buone pratiche di inclusione verso le persone non eterosessuali. Non ho mai avuto grossi problemi, nemmeno con i colleghi».
Quanto al Trentino, lo considera un contesto accogliente?
«Io sono nata in Albania, ma ho vissuto a Trento, Frosinone, Bolzano, in provincia di Udine, a Trieste dove ho avuto la possibilità per la prima volta di entrare in contatto con persone transgender. Quando sono tornata in regione per lavoro ho deciso di continuare a frequentare i circoli Arcigay fino a entrare nel direttivo di quello di Bolzano: ho fatto della mia causa un motivo di attivismo e impegno sociale per aiutare gli altri così come in passato è stato fatto per me».
Oggi è il giorno del Dolomiti Pride: come giudica il mancato patrocinio della Provincia di Trento all’evento?
«Lo ritengo un gesto da condannare, dovuto, probabilmente, anche al particolare momento politico. Penso sia un indebito segnale di chiusura nei confronti di persone che fanno parte della vita sociale di questa provincia e per essa hanno realizzato molto, mettendosi anche in gioco in prima persona per far sì che questo territorio si dotasse di una legge contro l’omobitransfobia».