Galimberti, la sfida «Giovani, rinascete dal nichilismo»
Editoria Domani a Comano e poi a S.Martino di Castrozza Il noto filosofo e psicoanalista parla delle nuove generazioni «Un 10% è passato dal nihilismo passivo a quello attivo»
«Non ci spezzate le ali, non trattate i nostri sogni come ingenuità, i nostri progetti come utopie. Se non abbiamo un sogno non ci muoviamo, nessuno si muove se non ha un sogno». E ancora: «Sappiamo benissimo che dovremo contemperare i nostri sogni con i dati di realtà, non sogniamo in una condizione romantica dell’esistenza».
Sono questi i due messaggi che «la generazione del nichilismo attivo», consapevole che il futuro le appartiene per ragioni biologiche, rivolge agli adulti, in primis ai genitori.
Nel suo ultimo lavoro dal titolo La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo (Feltrinelli), Umberto Galimberti (Monza, 1942) prende le mosse dal suo libro L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani (2007) per chiedersi se nell’ultimo decennio siano intervenuti dei cambiamenti rispetto alla situazione di allora.
«Oggi non è cambiato granché — afferma — fatta eccezione per una percentuale forse non piccola di giovani che sono passati dal nichilismo passivo della rassegnazione al nichilismo attivo».
Già professore di filosofia della storia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, tra i suoi libri più recenti ricordiamo Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto e I miti del nostro tempo, questa settimana con la presentazione di La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo, Galimberti inaugura due rassegne letterarie: Trentino d’autore domani alle 21 al Palazzo delle Terme di Comano e venerdì alle 18 Dolomitincontri presso la sala congressi di San Martino di Castrozza.
Professore, partiamo dal concetto di nichilismo, come lo intende?
«“Il più inquietante fra tutti gli ospiti” così definisce Nietzsche il nichilismo, e lo descrive composto di tre fasi: “manca il fine”; “manca la risposta al ‘perché?’”; “tutti i valori si svalutano”. Quest’ultima fase è la meno importante, nel senso che i valori non sono entità metafisiche ma dei coefficienti sociali adottati da una comunità, che li assume in quanto ritiene siano i migliori per ridurre la conflittualità. “Manca il fine” vuol dire invece che il futuro per i giovani non è una promessa come lo era per i loro padri, ma qualcosa del tutto imprevedibile. “Manca la risposta al ‘perché?’” si traduce in: perché devo impegnarmi, perché devo studiare o lavorare, al limite perché devo stare al mondo?».
Chi sono i giovani del «nichilismo attivo»?
«Una percentuale di giovani, che calcolo attorno a circa il 10 per cento del totale, ragazzi che vanno a scuola, sono istruiti, è passata dal nichilismo passivo della rassegnazione, che è la forma della prima decade del 2000, a quello attivo: non negano che il contemporaneo è nichilista, non vivono dell’ottimismo tipico del cristianesimo secondo cui il futuro porterà una salvezza, o di quello della scienza per cui il futuro è progresso o della sociologia per cui ci sarà un miglioramento delle condizioni di vita. Sanno però che il futuro è loro per ragioni biologiche, e invece di aspettarlo se lo prendono».
Che ruolo hanno i genitori in tutto questo?
«Fallimentare su tutta la linea. La loro parola per ragioni proprio fisiologiche funziona davvero fino a dodici anni, poi basta. Se lo devono mettere in mente, e se vogliono parlare con i figli oltre i dodici anni devono aver parlato molto prima, invece molto prima spesso non lo hanno fatto. I padri non parlano quasi mai con i bambini, le madri si occupano delle loro condizioni fisiche mentre di quelle psicologiche
Genitori Se loro vogliono parlare con i figli oltre i 12 anni devono però averlo fatto anche prima
non altrettanto. Se non si è parlato “prima”, dopo non si può più, se dici al figlio “studia” non ti ascolta. Inutile che i genitori facciano gli amici dei figli, stiamo scherzando? Devono fare i genitori, imprimere una certa autorità, devono “far fare” ai figli il complesso edipico. I figli “devono sbattere la porta” perché se l’Edipo non lo fanno in casa poi lo fanno fuori, con la polizia, nelle manifestazioni, nella curva nord».
E la scuola sa educare o si limita a trasmettere dei contenuti?
«L’educazione a scuola non si fa, e non solo perché ci sono dei professori che non hanno la capacità di entrare in relazione con gli studenti. Come i genitori, anche il professore non deve essere amico, ma autorevole attraverso la cultura, capace di comunicarla perché, come dice Platone, si impara per imitazione, per partecipazione, per fascinazione. Io ho paura di un professore che demotiva la classe perché la demotivazione è l’anticamera della depressione, e la depressione è l’anticamera dei gesti estremi. È necessario che i professori abbiano una capacità empatica, che sappiano affascinare e comunicare. Tutte cose che non si imparano, sono per natura, come per natura uno è pittore o musicista».
Nel suo libro si sofferma sulla differenza tra sentimento e impulso.
«Il sentimento — a differenza dell’impulso (stadio a cui si arresta la psiche dei bulli) e dell’emozione — non ci è dato per natura, ma si acquisisce per cultura. I primitivi raccontavano i miti, le nostre nonne ci insegnavano storie, anche truci come Cappuccetto rosso in cui il lupo mangia la nonna. È necessario entrare in contatto con il male e il dolore. Oggi il sentimento lo conosciamo attraverso tanta letteratura, che ci insegna amore, dolore, accidia, noia, spleen, tragedia, speranza, tutte le figure emotive e sentimentali».