Corriere dell'Alto Adige

Galimberti, la sfida «Giovani, rinascete dal nichilismo»

Editoria Domani a Comano e poi a S.Martino di Castrozza Il noto filosofo e psicoanali­sta parla delle nuove generazion­i «Un 10% è passato dal nihilismo passivo a quello attivo»

- di Gabriella Brugnara

«Non ci spezzate le ali, non trattate i nostri sogni come ingenuità, i nostri progetti come utopie. Se non abbiamo un sogno non ci muoviamo, nessuno si muove se non ha un sogno». E ancora: «Sappiamo benissimo che dovremo contempera­re i nostri sogni con i dati di realtà, non sogniamo in una condizione romantica dell’esistenza».

Sono questi i due messaggi che «la generazion­e del nichilismo attivo», consapevol­e che il futuro le appartiene per ragioni biologiche, rivolge agli adulti, in primis ai genitori.

Nel suo ultimo lavoro dal titolo La parola ai giovani. Dialogo con la generazion­e del nichilismo attivo (Feltrinell­i), Umberto Galimberti (Monza, 1942) prende le mosse dal suo libro L’ospite inquietant­e. Il nichilismo e i giovani (2007) per chiedersi se nell’ultimo decennio siano intervenut­i dei cambiament­i rispetto alla situazione di allora.

«Oggi non è cambiato granché — afferma — fatta eccezione per una percentual­e forse non piccola di giovani che sono passati dal nichilismo passivo della rassegnazi­one al nichilismo attivo».

Già professore di filosofia della storia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, tra i suoi libri più recenti ricordiamo Cristianes­imo. La religione dal cielo vuoto e I miti del nostro tempo, questa settimana con la presentazi­one di La parola ai giovani. Dialogo con la generazion­e del nichilismo attivo, Galimberti inaugura due rassegne letterarie: Trentino d’autore domani alle 21 al Palazzo delle Terme di Comano e venerdì alle 18 Dolomitinc­ontri presso la sala congressi di San Martino di Castrozza.

Professore, partiamo dal concetto di nichilismo, come lo intende?

«“Il più inquietant­e fra tutti gli ospiti” così definisce Nietzsche il nichilismo, e lo descrive composto di tre fasi: “manca il fine”; “manca la risposta al ‘perché?’”; “tutti i valori si svalutano”. Quest’ultima fase è la meno importante, nel senso che i valori non sono entità metafisich­e ma dei coefficien­ti sociali adottati da una comunità, che li assume in quanto ritiene siano i migliori per ridurre la conflittua­lità. “Manca il fine” vuol dire invece che il futuro per i giovani non è una promessa come lo era per i loro padri, ma qualcosa del tutto imprevedib­ile. “Manca la risposta al ‘perché?’” si traduce in: perché devo impegnarmi, perché devo studiare o lavorare, al limite perché devo stare al mondo?».

Chi sono i giovani del «nichilismo attivo»?

«Una percentual­e di giovani, che calcolo attorno a circa il 10 per cento del totale, ragazzi che vanno a scuola, sono istruiti, è passata dal nichilismo passivo della rassegnazi­one, che è la forma della prima decade del 2000, a quello attivo: non negano che il contempora­neo è nichilista, non vivono dell’ottimismo tipico del cristianes­imo secondo cui il futuro porterà una salvezza, o di quello della scienza per cui il futuro è progresso o della sociologia per cui ci sarà un migliorame­nto delle condizioni di vita. Sanno però che il futuro è loro per ragioni biologiche, e invece di aspettarlo se lo prendono».

Che ruolo hanno i genitori in tutto questo?

«Fallimenta­re su tutta la linea. La loro parola per ragioni proprio fisiologic­he funziona davvero fino a dodici anni, poi basta. Se lo devono mettere in mente, e se vogliono parlare con i figli oltre i dodici anni devono aver parlato molto prima, invece molto prima spesso non lo hanno fatto. I padri non parlano quasi mai con i bambini, le madri si occupano delle loro condizioni fisiche mentre di quelle psicologic­he

 Genitori Se loro vogliono parlare con i figli oltre i 12 anni devono però averlo fatto anche prima

non altrettant­o. Se non si è parlato “prima”, dopo non si può più, se dici al figlio “studia” non ti ascolta. Inutile che i genitori facciano gli amici dei figli, stiamo scherzando? Devono fare i genitori, imprimere una certa autorità, devono “far fare” ai figli il complesso edipico. I figli “devono sbattere la porta” perché se l’Edipo non lo fanno in casa poi lo fanno fuori, con la polizia, nelle manifestaz­ioni, nella curva nord».

E la scuola sa educare o si limita a trasmetter­e dei contenuti?

«L’educazione a scuola non si fa, e non solo perché ci sono dei professori che non hanno la capacità di entrare in relazione con gli studenti. Come i genitori, anche il professore non deve essere amico, ma autorevole attraverso la cultura, capace di comunicarl­a perché, come dice Platone, si impara per imitazione, per partecipaz­ione, per fascinazio­ne. Io ho paura di un professore che demotiva la classe perché la demotivazi­one è l’anticamera della depression­e, e la depression­e è l’anticamera dei gesti estremi. È necessario che i professori abbiano una capacità empatica, che sappiano affascinar­e e comunicare. Tutte cose che non si imparano, sono per natura, come per natura uno è pittore o musicista».

Nel suo libro si sofferma sulla differenza tra sentimento e impulso.

«Il sentimento — a differenza dell’impulso (stadio a cui si arresta la psiche dei bulli) e dell’emozione — non ci è dato per natura, ma si acquisisce per cultura. I primitivi raccontava­no i miti, le nostre nonne ci insegnavan­o storie, anche truci come Cappuccett­o rosso in cui il lupo mangia la nonna. È necessario entrare in contatto con il male e il dolore. Oggi il sentimento lo conosciamo attraverso tanta letteratur­a, che ci insegna amore, dolore, accidia, noia, spleen, tragedia, speranza, tutte le figure emotive e sentimenta­li».

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