IL POPOLO DEI SENZA LAVORO
Se uno su undici vi sembra poco, considerate l’alone che quell’uno si porta appresso. La garante per l’infanzia e l’adolescenza dell’Alto Adige, Paula Maria Landstätter, segnala il rischio disagio per i giovani, mettendo in rapporto la loro condizione con la crisi dell’impegno nell’educazione, nella formazione e nel lavoro. Il confronto con il dato italiano potrebbe essere ritenuto confortevole: sia in Alto Adige sia in Trentino coloro che, avendo da 15 a 24 anni non lavorano, né studiano, né seguono un corso di formazione, sono circa il 10%, mentre in Italia raggiungono percentuali decisamente più alte. Ma a ben guardare le cose non sono così semplici. Il problema, in quanto riguarda intere generazioni che stanno facendo i conti con il precariato, è solo la punta di un iceberg che nella parte sommersa contiene tutti gli elementi di una profonda insicurezza capace di attaccare le aspettative e il senso di possibilità dei giovani. Dalle analisi condotte su questo problema sono almeno tre gli ambiti che bisognerebbe considerare per cercare vie d’uscita a proposito delle quali si stenta a vedere investimenti innovativi di qualche rilievo. Tutto ruota intorno a una riforma occupazionale che dovrebbe tendere a ridistribuire il lavoro disponibile. La rivoluzione tecnologica e le trasformazioni in atto nei processi produttivi richiedono che quella riforma sia quantitativa e qualitativa allo stesso tempo.
Da un lato è necessario lavorare meno perché un maggior numero di persone abbia accesso al mercato lavorativo. Dall’altro abbiamo necessità di riconoscere il senso della professione per la vita delle persone e per il loro riconoscimento sociale. Quante possibilità effettive ha chi lavora di esprimersi e sentirsi generativo, riconoscendosi nel ben fatto, se si concepisce il mestiere solo come un costo da eliminare? E la creatività e l’innovazione nel lavoro dove finisce? Accanto a simili fattori vi è la giustizia sociale. Ovvero la questione del giusto rapporto tra prestazione, opera e riconoscimento, insieme al contenimento della forbice nei trattamenti, che si è sempre più allargata con l’ampliarsi delle disuguaglianze. La situazione attuale non preoccupa, però, solo per le conseguenze individuali. Vi è un humus di indifferenza che si amplia intorno a chi non si sente parte delle società. Il lavoro è una delle esperienze più concrete per favorire una cittadinanza attiva. Chi è escluso rischia di comporre quel popolo che aveva tanto impensierito Hanna Arendt: «È un popolo che non può più credere a nulla, che non può neanche decidere. È privato non solo della capacità di agire, ma anche della capacità di pensare e giudicare. E con un popolo così ci puoi fare quello che vuoi».