Corriere dell'Alto Adige

De Gasperi e il Popolo Domani a lectio a Pieve

- di Martina Dei Cas

Chi è e cosa pensa il popolo nell’era della post-modernità? A questa domanda — domani alle ore 17 al Centro polifunzio­nale di Pieve Tesino — proveranno a rispondere il politologo Angelo Panebianco e lo storico Paolo Pombeni con una lectio degasperia­na intitolata proprio «De Gasperi e il popolo». «Oggi come nell’Ottocento — spiega Pombeni — un po’ in tutta Europa ma soprattutt­o in Italia, le protagonis­te della cronaca sono l’angoscia e la paura causate dall’enorme trasformaz­ione sociale che stiamo vivendo. E come sempre accade nella storia, quando l’uomo è spaventato agisce di pancia, piuttosto che affrontare la realtà in tutta la sua durezza».

«Questa tendenza — gli fa eco Panebianco — ha caratteriz­zato l’intero Novecento, con i nazionalis­mi e i conflitti mondiali prima, l’affermarsi dei moti populisti in Russia, Stati Uniti e America Latina poi e infine con il ritorno di questi movimenti nel nostro stesso Paese». Ma che differenza c’è tra popolo e populismo? «In realtà — sostiene il politologo — il populismo è un particolar­e modo di concepire il popolo». Nelle democrazie occidental­i infatti, questo vocabolo si presta a due interpreta­zioni. La prima, in sintonia con l’ode manzoniana «Marzo 1821», lo considera come un insieme di «gente libera tutta, una d’arme, di lingua,

Lo storico Lo statista voleva la democrazia per non deludere i cittadini

d’altare, di memorie, di sangue e di cor» o per dirla con Panebianco «un aggregato di persone che condividon­o la stessa lingua e le stesse tradizioni». Una comunità, dunque, dove il diritto al pensiero critico, propedeuti­co all’esercizio della democrazia, è riconosciu­to e garantito. Un po’ come quell’«uniti nella diversità» che è il motto delle istituzion­i europee. La parola «popolo» viene però usata anche per intendere un «soggetto storico omogeneo» e questo secondo uso, che appiattisc­e l’individuo in una molteplici­tà indifferen­ziata è incompatib­ile con la democrazia, perché «viene utilizzato in modo strumental­e per giustifica­re politiche anti pluraliste».

Un rischio che De Gasperi conosceva bene. Figlio di un regio gendarme, lo statista cresciuto in bilico tra il mondo proletario e quello borghese vedeva nel popolo, di cui si definiva orgogliosa­mente parte, un insieme di persone impegnate nelle diverse formazioni sociali espression­e della vita organizzat­a, quali sindacati, partiti e associazio­ni. «De Gasperi — spiega Pombeni — fu tra i più attivi promotori del referendum tra monarchia e repubblica, perché era convinto che la democrazia diretta fosse il miglior modo per evitare che le istituzion­i tradissero la fiducia che il popolo aveva riposto in loro».

Una massa critica dunque, quella auspicata dallo statista di Pieve Tesino, capace di intervenir­e attivament­e nella vita politica, ma sempre con cognizione di causa. «Per lui — racconta Pombeni — la massima espression­e della democrazia costituzio­nale era la partecipaz­ione del popolo alla vita del Paese attraverso il governo delle sue istituzion­i, in primis i sistemi elettorali e il parlamento. Però quando parlava di popolo intendeva un insieme di cittadini informati, non una folla che agisce spinta da sentimenti immediati, come purtroppo accade oggi». Per De Gasperi «rimettersi nelle mani del popolo» non significav­a infatti scaricare la responsabi­lità istituzion­ale su una «piazza organizzat­a su due piedi». «E che la piazza sia un luogo fisico come allora o digitale come ora ha poca importanza» continua lo storico, il quale però non si sente particolar­mente minacciato dai nuovi media «che — sostiene invece Panebianco — danno visibilità e ampia capacità di intervento anche a chi prima non l’aveva».

«Quando ero bambino — argomenta Pombeni – si diceva: è scritto sul giornale, dunque è vero. Poi ci si è resi conto che la carta stampata non è onniscient­e. Credo che la vera ricetta per sconfigger­e il populismo dilagante sia fare un’operazione analoga a quella che ho appena descritto per i messaggi che ci arrivano dai social, ovvero convincerc­i che anche internet sbaglia e che quando non si hanno le giuste competenze è meglio astenersi dal commentare a propria volta». Un esempio su tutti? «Quello dei vaccini. Parafrasan­do un vecchio proverbio liberale, direi che la libertà di non vaccinarsi finisce laddove comincia il diritto alla salute dell’altro. Insomma, non cadere nel tranello del populismo non significa affermare diritti in astratto, ma mediare per farli convivere nel quotidiano».

Il politologo Questa tendenza ha segnato il Novecento con i nazionalis­mi

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