Corriere dell'Alto Adige

UN PONTE DIVENTATO SIMBOLO

- Di Paul Renner

La tragedia di Genova ci ha fatti ammutolire. Ci ha anche spaventati e riempiti di compassion­e per le vittime. Ma anche ci ha fatti tremare di sdegno. Come può accadere un simile disastro?

Sappiamo che la natura non si lascia del tutto dominare. Ci illudiamo che la nostra tecnica e i suoi progressi ci dimettano in grado di creare perfezione ed eternità. Ma la disillusio­ne è sempre in agguato. La fragilità è compagna di cammino della nostra psiche, dei nostri umori, dei nostri amori ma anche dei prodotti delle nostre mani. Troppo spesso ci dimentichi­amo di come la nostra vita sia appesa a un filo e di come a volte questo filo venga spezzato dall’incuria o dalla superficia­lità con cui altri svolgono quello che sarebbe il loro dovere.

Il crollo del viadotto a Genova ci ha confrontat­i con una morte delle più terribili. Tutto il nostro costruire e sfidare le leggi della fisica vorrebbe garantirci da simili orride sorprese. Sentirsi mancare la terra sotto i piedi, cadere nel vuoto, è infatti una delle morti più orribili che ci possano capitare. Il non poter far nulla per salvarsi, ci fa scoprire quanto precarie siano le nostre condizioni di vita.

Papa Francesco ricorda continuame­nte l’importanza di non costruire muri ma ponti. Solo che i ponti bisogna costruirli bene. Ricordo che anni fa circolò per un certo tempo sui media la notizia che i piloni della A 22 fossero tutti a rischio di crollo. Vennero fatte delle verifiche e la notizia risultò esagerata. L’evento di Genova ha portato alla ribalta anche le altre migliaia di ponti e viadotti che esistono nella nostra regione. Si fa davvero tutto il possibile per garantirne una manutenzio­ne adeguata, un livello di sicurezza a prova di simili tragedie? I materiali moderni che impieghiam­o in simili manufatti sono davvero i migliori? Sono passato più volte a Porto sul ponte in metallo costruito da un discepolo dell’ingegner Eiffel nel 1886. La struttura ondeggia come di dovere, ma non accenna a crollare. Idem dicasi del ponte di Verrazzano a New York o del Golden Gate a san Francisco, manufatti storici, sempre monitorati. Il crollo di quei cento metri di calcestruz­zo ha umiliato la Superba (come viene chiamata tradiziona­lmente Genova) ma ha anche attirato su di essa espression­i di solidariet­à e di affetto. Non possiamo infatti vivere senza ponti, senza strade, senza comunicazi­one. Sarebbe allora utile pensare anche a tutti quei migranti per i quali il vescovo Ivo nella recente festa dell’Assunta ha pubblicato una lettera pastorale, per ribadire che non possiamo ostacolare quanti fuggono dalle loro terre martoriate e cercano sicurezza nei nostri Paesi del benessere. Genova mi ha fatto ripensare a un libro di Thornton Wilder, pubblicato nel lontano 1927, che lessi con interesse e un po’ di disagio quando ero ancora ragazzo. Si tratta de «Il ponte di san Luis Rey» e narra dell’omonimo viadotto crollato in Perù nel 1714, trascinand­o nella morte cinque ignare persone. Sull’evento e sulle biografie delle vittime si mise a indagare un testimone d’eccezione, ovvero fra Ginepro. Mi auguro allora che anche la catastrofe di Genova provochi adeguate indagini e non finisca «all’italiana», con processi eterni, infiniti scaricabar­ile e un deludente nulla di fatto. Non diamo l’impression­e di essere un Paese inaffidabi­le. Ogni ferita di questa portata, può essere l’occasione per una presa di coscienza e per un nuovo sussulto di dignità, di senso del dovere, di unità nazionale intorno a ciò che conta davvero.

Il futuro

Mi auguro che la catastrofe ligure non finisca «all’italiana», con processi enterni e vari scaricabar­ile

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