Costa racconta l’America la scintilla è stata Obama
L’intervista Al Festival delle resistenze contemporanee arriva il giornalista de Il Post, Francesco Costa Racconta la sua passione per la politica degli Stati Uniti
Tell America again. Raccontare di nuovo l’America. Great o meno che sia. Francesco Costa, 34 anni, giornalista, vicedirettore del quotidiano online Il Post, in questi anni ha raccontato la politica e la società statunitense, in particolare seguendo da giugno 2015 a dicembre 2017 le ultime elezioni presidenziali e i successivi sviluppi con il progetto «Da Costa a Costa», un podcast— newsletter settimanale — è da poco disponibile la nuova stagione, che si concluderà con le elezioni di metà mandato negli Usa di martedì 6 novembre — che ha ottenuto un grandissimo successo, permettendo a Costa di vincere nel 2016 il premio internazionale Spotorno Nuovo Giornalismo e di collaborare con Rai Tre per il documentario «La Casa Bianca».
Francesco Costa sarà domani a Trento alle 18 in piazza Cesare Battisti per un incontro nell’ambito del Festival delle resistenze contemporanee.
Francesco, come è nata la tua passione per la politica e la società americana?
«È una passione nata nel 2007, la scintilla è stata la candidatura di Obama alle primarie del Partito democratico. Avevo 23 anni, volevo fare il giornalista, c’era una grande storia da raccontare, perciò iniziai subito a documentarmi il più possibile e a scrivere».
Cosa è cambiato dopo la vittoria di Trump? Quale sarà secondo te l’esito delle elezioni di metà mandato?
«Con le elezioni del 2016 e la presidenza Trump sono saltati i vecchi equilibri, i vecchi schemi: le regole di prima non valgono più ma non si capisce ancora bene quali siano le nuove. Siamo ancora in una fase di mezzo in cui tutti sono disorientati, giornalisti e sondaggisti compresi. Le elezioni di midterm? Solitamente il partito di maggioranza— quello repubblicano in questo caso — perde seggi al Congresso ma c’è la possibilità che i continui attacchi contro Trump e la possibilità di un suo impeachment galvanizzino i suoi sostenitori e la relativa affluenza, un elemento chiave per l’esito finale».
Il caso mediatico suscitato recentemente dal libro di Bob Woodward («Fear») e dall’editoriale anonimo pubblicato sul New York Times avrà delle conseguenze? Svelano retroscena sull’amministrazione Trump piuttosto imbarazzanti e preoccupanti.
«È vero, ma non sono così sorprendenti: lo sappiamo ormai che la Casa Bianca è nel caos, il libro di Woodward e l’editoriale ci aiutano certamente a comprendere meglio cosa sta accadendo a Washington ma non fanno altro che confermarci cose che sappiamo già».
Il funerale del senatore John McCain, titolava il New Yorker, «è stato un grande incontro di resistenza, il più grande fino a oggi». Cosa ne pensi?
«Lo è stato ma il termine “resistenza” non va inteso secondo me come combattività contro Trump. A quella cerimonia erano presenti tutti politici, sia democratici che repubblicani, accomunati da una cosa sola, ossia dall’essere totalmente alieni dall’attuale governo di Washington. La morte di McCain e la commozione che ha suscitato può essere vista come la chiusura di un’era politica».
Citando il primo episodio della serie televisiva Newsroom: l’America è ancora il più grande Paese al mondo?
«Come risponde il protagonista della serie per tantissimi aspetti no: pensiamo solo al sistema sanitario o alla diffusione delle armi. Dall’altro lato gli Stati Uniti sono al vertice nell’industria culturale, in campo militare, nelle scienze e nell’istruzione universitaria.
L’opinione
Resistere non vuole dire combattere
La risposta quindi sta un po’ nel mezzo. Di certo gli Usa non sono più la superpotenza di prima, la loro influenza nel mondo si sta logorando e sia l’attuale approccio isolazionista che il comportamento di Trump nelle relazioni internazionali stanno accelerando questo processo e lasceranno segni profondi».
Hai tradotto l’ultimo libro dell’ex vicepresidente Joe Biden, «Promise me, Dad», che uscirà a breve in Italia per NR Edizioni: cosa ti ha lasciato?
«È stato semplice da tradurre perché è scritto in modo pulito, il ghostwriter storico di Biden è molto bravo. Da un punto di vista umano è impossibile non esserne toccati: Biden è un personaggio come pochi altri nella politica americana, con una storia personale davvero tragica: la sua prima moglie e sua figlia morirono in un incidente stradale e suo figlio morì a quarant’anni per un tumore al cervello. Nel testo si intrecciano poi varie vicende politiche che svelano molti retroscena dell’attività di vicepresidente. È un libro molto interessante e toccante, che consiglio anche a chi non è appassionato di politica americana».
E del tuo libro cosa puoi dirci?
«Sono in una fase di riflessione: ho scoperto che per come sono fatto io scrivere un libro non è semplice. La scrittura è il mezzo con cui sono più a mio agio e lo adatto ai vari formati (articoli, newsletter, podcast) ma nel caso di un libro è diverso, essendo un progetto a lungo termine. Nella mia testa è un libro su cos’è oggi l’America, per come l’ho vista e vissuta nei miei viaggi. Ho ancora intenzione di scriverlo ma se ne riparlerà l’anno prossimo».
Da quest’anno assumerai l’incarico di Maestro al College Reporting della Scuola Holden, quale sarà il tuo obiettivo?
«Fare in modo che gli allievi una volta usciti da lì non siano disoccupati»