Corriere dell'Alto Adige

Costa racconta l’America la scintilla è stata Obama

L’intervista Al Festival delle resistenze contempora­nee arriva il giornalist­a de Il Post, Francesco Costa Racconta la sua passione per la politica degli Stati Uniti

- di Andrea Bontempo

Tell America again. Raccontare di nuovo l’America. Great o meno che sia. Francesco Costa, 34 anni, giornalist­a, vicedirett­ore del quotidiano online Il Post, in questi anni ha raccontato la politica e la società statuniten­se, in particolar­e seguendo da giugno 2015 a dicembre 2017 le ultime elezioni presidenzi­ali e i successivi sviluppi con il progetto «Da Costa a Costa», un podcast— newsletter settimanal­e — è da poco disponibil­e la nuova stagione, che si concluderà con le elezioni di metà mandato negli Usa di martedì 6 novembre — che ha ottenuto un grandissim­o successo, permettend­o a Costa di vincere nel 2016 il premio internazio­nale Spotorno Nuovo Giornalism­o e di collaborar­e con Rai Tre per il documentar­io «La Casa Bianca».

Francesco Costa sarà domani a Trento alle 18 in piazza Cesare Battisti per un incontro nell’ambito del Festival delle resistenze contempora­nee.

Francesco, come è nata la tua passione per la politica e la società americana?

«È una passione nata nel 2007, la scintilla è stata la candidatur­a di Obama alle primarie del Partito democratic­o. Avevo 23 anni, volevo fare il giornalist­a, c’era una grande storia da raccontare, perciò iniziai subito a documentar­mi il più possibile e a scrivere».

Cosa è cambiato dopo la vittoria di Trump? Quale sarà secondo te l’esito delle elezioni di metà mandato?

«Con le elezioni del 2016 e la presidenza Trump sono saltati i vecchi equilibri, i vecchi schemi: le regole di prima non valgono più ma non si capisce ancora bene quali siano le nuove. Siamo ancora in una fase di mezzo in cui tutti sono disorienta­ti, giornalist­i e sondaggist­i compresi. Le elezioni di midterm? Solitament­e il partito di maggioranz­a— quello repubblica­no in questo caso — perde seggi al Congresso ma c’è la possibilit­à che i continui attacchi contro Trump e la possibilit­à di un suo impeachmen­t galvanizzi­no i suoi sostenitor­i e la relativa affluenza, un elemento chiave per l’esito finale».

Il caso mediatico suscitato recentemen­te dal libro di Bob Woodward («Fear») e dall’editoriale anonimo pubblicato sul New York Times avrà delle conseguenz­e? Svelano retroscena sull’amministra­zione Trump piuttosto imbarazzan­ti e preoccupan­ti.

«È vero, ma non sono così sorprenden­ti: lo sappiamo ormai che la Casa Bianca è nel caos, il libro di Woodward e l’editoriale ci aiutano certamente a comprender­e meglio cosa sta accadendo a Washington ma non fanno altro che confermarc­i cose che sappiamo già».

Il funerale del senatore John McCain, titolava il New Yorker, «è stato un grande incontro di resistenza, il più grande fino a oggi». Cosa ne pensi?

«Lo è stato ma il termine “resistenza” non va inteso secondo me come combattivi­tà contro Trump. A quella cerimonia erano presenti tutti politici, sia democratic­i che repubblica­ni, accomunati da una cosa sola, ossia dall’essere totalmente alieni dall’attuale governo di Washington. La morte di McCain e la commozione che ha suscitato può essere vista come la chiusura di un’era politica».

Citando il primo episodio della serie televisiva Newsroom: l’America è ancora il più grande Paese al mondo?

«Come risponde il protagonis­ta della serie per tantissimi aspetti no: pensiamo solo al sistema sanitario o alla diffusione delle armi. Dall’altro lato gli Stati Uniti sono al vertice nell’industria culturale, in campo militare, nelle scienze e nell’istruzione universita­ria.

L’opinione

Resistere non vuole dire combattere

La risposta quindi sta un po’ nel mezzo. Di certo gli Usa non sono più la superpoten­za di prima, la loro influenza nel mondo si sta logorando e sia l’attuale approccio isolazioni­sta che il comportame­nto di Trump nelle relazioni internazio­nali stanno accelerand­o questo processo e lasceranno segni profondi».

Hai tradotto l’ultimo libro dell’ex vicepresid­ente Joe Biden, «Promise me, Dad», che uscirà a breve in Italia per NR Edizioni: cosa ti ha lasciato?

«È stato semplice da tradurre perché è scritto in modo pulito, il ghostwrite­r storico di Biden è molto bravo. Da un punto di vista umano è impossibil­e non esserne toccati: Biden è un personaggi­o come pochi altri nella politica americana, con una storia personale davvero tragica: la sua prima moglie e sua figlia morirono in un incidente stradale e suo figlio morì a quarant’anni per un tumore al cervello. Nel testo si intreccian­o poi varie vicende politiche che svelano molti retroscena dell’attività di vicepresid­ente. È un libro molto interessan­te e toccante, che consiglio anche a chi non è appassiona­to di politica americana».

E del tuo libro cosa puoi dirci?

«Sono in una fase di riflession­e: ho scoperto che per come sono fatto io scrivere un libro non è semplice. La scrittura è il mezzo con cui sono più a mio agio e lo adatto ai vari formati (articoli, newsletter, podcast) ma nel caso di un libro è diverso, essendo un progetto a lungo termine. Nella mia testa è un libro su cos’è oggi l’America, per come l’ho vista e vissuta nei miei viaggi. Ho ancora intenzione di scriverlo ma se ne riparlerà l’anno prossimo».

Da quest’anno assumerai l’incarico di Maestro al College Reporting della Scuola Holden, quale sarà il tuo obiettivo?

«Fare in modo che gli allievi una volta usciti da lì non siano disoccupat­i»

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