FERMARE LA DERIVA DELL’ODIO
Gino Strada ha parlato nei due giorni di Emergency a Trento del pericolo di «assuefazione all’odio». Espressione forte e che ben coglie la deriva cui stiamo assistendo non solo nella politica nazionale e internazionale, ma anche nei rapporti tra persone, percorsi da crescente fastidio reciproco, dalla quotidiana ricerca di rivalsa e non di collaborazione. È una microconflittualità che tocchiamo con mano ogni giorno. Ognuno per sé, siamo costantemente sulla difensiva. Qualcosa di prezioso sembra essere stato messo a repentaglio e allora la parola forte, la reazione sgarbata, anche l’aggressività viene sentita come inevitabile. Gino Strada ha parlato giustamente della necessità di resistere a questa deriva. Tuttavia lo scontento lo sentiamo intorno a noi e anche dentro di noi. Ci sono risposte diverse rispetto a quelle che fomentano l’odio?
L’invito alla pace è prezioso e va raccolto sempre. Perché non sia astratto occorre tuttavia non dimenticare che la vita democratica non è mai solo armonia e accordo: è fondata sulla legittimità del dissenso, sulla presenza di voci tra loro in contrasto, anche in conflitto. Senza dissenso e senza conflitto ci sono solo i regimi totalitari, dove la libertà è conculcata e le differenze sono «armonizzate» dall’alto. Nessuno se li augura. Certo, la politica ha sempre il compito di unificare, di comporre le diversità e di trovare momenti di convergenza e di pace.
Al tempo stesso è importante riconoscere che dissenso e conflitto sono forme di relazione sociale, e non la fine della relazione, che si ha solo nel caso della guerra. È il momento di tensione in cui le ansie si riversano all’esterno quando qualcosa a cui teniamo è in gioco. C’è indifferenza quando non c’è nulla che ci stia a cuore. Ecco, nel conflitto si esprime qualcosa che ci sta a cuore, qualcosa cui teniamo e che vogliamo tutelare. In democrazia il contrasto, la diversità di opinioni non è sempre un gioco elegante. Volano parole forti e talvolta vince chi grida di più. È quello che sta succedendo in questo momento da parte di chi cavalca in modo spregiudicato uno scontento profondo. È possibile che il dissenso e lo scontento si esprimano in dimensione di apertura, o il contrario oggi è inevitabile?
La mia opinione è che un buon uso del conflitto è possibile, a tre condizioni: in primo luogo se si considerano in modo paritario le diverse voci. Tutti hanno il diritto di esprimere la propria opinione, non ci sono punti di vista che non contano, giusti o sbagliati che siano. Sarà la discussione a far prevalere l’argomento migliore. In secondo luogo questo può avvenire se si è disposti a rispettare anche nei modi un’opinione diversa. L’asprezza di un confronto non può far saltare le regole del vivere civile e puntare semplicemente a delegittimare l’avversario. In terzo luogo la franchezza è una virtù se l’obiettivo finale è cercare punti di convergenza, rinunciando a qualsiasi dogmatismo. La «granitica convinzione di essere nel giusto», espressa da molte forze politiche di destra non riconosce la legittimità di altre voci, ma vuole imporre la propria. Chi esprime oggi il proprio scontento anche in maniera forte si ricordi sempre che questo è possibile finché c’è libertà di dissenso, finché c’è democrazia.