Muser: «I social usati per diffondere l’odio»
Appello di Muser: in politica e sui social troppo spesso parole di odio
«Natale è il momento in cui, per i cristiani, la Parola si fa carne. Ed è un momento per riflettere sull’uso che oggi facciamo della parola, troppo spesso strumento per diffondere l’odio. Lo stesso accade coi simboli religiosi che, quando vengono definiti “tradizionali” e usati per escludere la parte di umanità che non ci piace, perdono il loro significato». Ancora una volta il vescovo Ivo Muser non si esime dal rispondere su temi attuali e delicati, richiamando tutti a un maggiore senso di responsabilità.
Il 2018 ha portato grandi cambiamenti nel panorama politico. Lei è intervenuto più volte nel dibattito pubblico, invitando a un uso responsabile del linguaggio. È cambiato qualcosa a campagna elettorale conclusa?
«Sono preoccupato di come viene usata la parola oggi. Tutti dovremmo riflettere sul significato dei termini e su come li usiamo, perché la dignità dell’uomo passa anche attraverso la dignità della parola. Il problema resta attuale, visto come si sono evoluti i mezzi di comunicazione. Non è mia intenzione condannarli, solo ricordare che spesso possono danneggiare, soprattutto quando, dietro le parole, manca una firma e una faccia. Lo stesso vale per le
fake news, specie se usate da chi svolge un ruolo pubblico. Da loro mi aspetto parole aperte, anche di critica, ma che rispettino la verità. Tutto il resto è veleno per le relazioni».
Anche i simboli religiosi entrano nel dibattito politico. Cosa pensa della bufera che c’è stata, a Trento, circa la presenza di crocifissi e presepi nei luoghi pubblici?
«Ci sono simboli che per noi cristiani sono sacri ma che vanno vissuti, non imposti. Nel presepe ci sono Gesù, Maria e tutti coloro che lo accolgono. Ma ci siamo anche tutti noi, non solo la parte dell’umanità che ci piace. Il presepe è diverso a seconda della zona del mondo in cui è realizzato, e quando viene usato per escludere qualcuno, perde il suo significato».
A ottobre aveva rilanciato la proposta di cambiare il nome di piazza della Vittoria in piazza della Pace. La reazione, però, è stata tiepida. Se lo aspettava?
«Il mio intento era sottolineare che da una guerra non escono vincitori, ma solo vinti. E che la storia dovrebbe aiutare ad andare avanti. Ma per farlo, soprattutto in Alto Adige, ha bisogno di essere affrontata e raccontata assieme, altrimenti ci si ritrova sempre in qualche forma di vittimismo. Stare fermi a leccarci le ferite non porta da nessuna parte».
È un dato di fatto il calo di vocazioni degli ultimi anni, con i sacerdoti che spesso si ritrovano a gestire più di una parrocchia.
«Sta cambiando il volto della Chiesa ma tutto comincia in casa. In quante case si parla ancora di Gesù, esiste la preghiera, si spiegano i simboli? Come viene vissuta la domenica? Anche questo incide sulla vocazione e la vita comunitaria, ed è da qui che bisognerebbe ripartire».
Sono in arrivo anche novità sulle cresime.
«Solo dal 2020. Non vogliamo perdere nessuno, ma far riflettere sul significato dei sacramenti. Non esiste un’età ideale per farli ma nemmeno bisogna vederli come feste o eventi isolati. Un sacramento è un dono in un cammino».
Qualche giorno fa ha celebrato la messa in carcere. Che clima ha trovato?
«Nonostante i problemi della struttura, al suo interno trovo sempre tanta umanità. Lo dicono anche i carcerati. Il merito va a volontari e agenti che riescono a rendere il clima più sopportabile. Non si vuole minimizzare le colpe di chi è recluso ma dare loro una parola di speranza per non farli sentire dimenticati».