QUEL POST CHE FA RIFLETTERE
La storia di Hamza El Hamoudi, raccontata recentemente dal Corriere dell’Alto Adige, è una storia triste. Beninteso: una tristezza da attribuire tutta alla nostra miseria collettiva, più che da accollare allo sfortunato protagonista.
Per chi se la fosse persa, eccone un laconico riassunto. Un ragazzo straniero, impiegato in una nota azienda locale, quindi con un lavoro e una retribuzione corrispondente, cerca casa e non la trova.
Non la trova proprio perché straniero, e le persone, dopo averlo visto, dopo aver visto il colore della sua pelle, non si fidano, lo respingono. La vittima di tale trattamento sembra non prendersela neppure più di tanto, usa addirittura parole di comprensione («Comprendo che abbiano paura. Alcuni stranieri non si comportano bene e, magari, non pagano l’affitto con regolarità. Per un proprietario significa azioni legali, pensieri e costose soluzioni»).
L’amaro in bocca, però, resta. E a nulla serve l’ovvia postilla: quanti italiani non pagano l’affitto con regolarità? Arrendersi a un pregiudizio così banale, come quello della provenienza, è davvero qualcosa di inevitabile, qualcosa che deve essere accettato senza interferire nelle relazioni che si instaurano a un livello privato? Certamente no.
Ma in effetti l’unica soluzione sembra essere questa: evidenziare i casi di discriminazione e raccontarli.
Tutto ciò nella speranza che all’interno della coscienza pubblica si rinforzino quegli argini necessari al recupero di una valutazione più disponibile a includere chi, all’apparenza, sembra così«diverso» da noi. Il giovane ha deciso di parlare della sua storia con un post su Facebook, dichiarandosi addirittura disposto a dare una ricompensa in denaro a chi lo aiutasse a trovare un alloggio. Spargere la voce serve, sicuramente, e noi confidiamo perciò che — per una volta — anche il mondo dei social non si dimostri essere quello che perlopiù è diventato: una palestra di odio, una continua esibizione di frasi dure come i mattoni del muro che ogni giorno innalziamo tra individuo e individuo. Esiste e resiste comunque anche l’empatia, quell’empatia che, nonostante venga discreditata da epiteti sciocchi come «buonismo», circola ancora tra di noi e ci permette di non cedere all’indifferenza e alla rassegnazione. «La solidarietà — ha scritto una volta il filosofo americano, Noam Chomsky — rende gli individui difficilmente controllabili e impedisce che diventino un soggetto passivo nella mani dei privati.
Quindi occorre una macchina propagandistica che corregga ogni deviazione dal principio della soggezione ai sistemi di potere». Per opporsi alla soggezione che proviamo nei confronti del potere a volte basta un gesto, anche piccolissimo, come quello di dare un’informazione.