Gli ottomila nomi sul muro della memoria
Un muro ricorda gli internati: ottomila nomi scritti sul videowall Quindici libri con le testimonianze dei sopravvissuti di Bolzano
Un muro di video che ricorda i nomi degli ottomila internati nel lager nazista di via Resia. Un’installazione nata dall’idea degli architetti Elena Mezzanotte e Peter Plattner, rende fruibili anni di lavoro di ricerca.
Bolzano. Via Resia 80, settantacinque anni fa, primavera del ‘44. Partigiani, sospettati, mogli di combattenti, rastrellati, scioperanti, persone che hanno detto la cosa sbagliata al momento sbagliato, ebrei, zingari. Questi sono solo alcuni dei profili dei deportati che in quella primavera cominciarono a transitare nel lager nazista di Bolzano, aperto all’indomani dell’armistizio con gli angloamericani del ‘43.
In ricordo di quei detenuti oggi, in via Resia, c’è il «Passaggio della memoria», una sorta di museo all’aperto dove è stato inaugurato un monumento. Un muro, riferito a quello del lager, composto da 32 lastre di vetro grigio che fanno apparire e scomparire i nomi dei deportati, alternandoli.
I nomi sono circa 8.000 e stanno proseguendo le ricerche per aggiungere quelli che mancano. Dal lager sono transitate circa 11mila persone, un quarto del totale dei deportati in Italia. Di questi circa 3.500 sono stati trasportati nei lager in Germania, 2.500 non sono più tornati a casa. A nord ci si arrivava ovviamente attraversando il Brennero, con i camion o stipati in condizioni umilianti sui treni. A Bolzano si partiva dai binari di via Pacinotti, i resti delle vie ferrate sono ancora lì. Nel lager arrivarono per la maggior parte detenuti per motivi politici, più che per motivi razziali.
Dietro ogni nome, una storia. Alcune di queste, quelle di chi è passato da Bolzano, le hanno raccolte Carla Giacomozzi, responsabile dell’Archivio storico di Bolzano, insieme a Giuseppe Paleari, ex referente della Biblioteca Popolare di Nova milanese. I due curatori del progetto «Testimonianze dai Lager» hanno intervistato nel 2000 alcuni sopravvissuti, molto giovani all’epoca del lager. Ne hanno fatto poi volumi che rispondono alla domanda «Chi erano i detenuti?».
Uno di loro era Luigi Emer, trentino, combattente partigiano, Avio era il suo nome di battaglia. Emer fu arrestato a 26 anni dopo un combattimento contro un presidio nazifascista a Cavalese. Non fece fermare il combattimento ai suoi compagni, nonostante le fratture alla gamba destra e al braccio sinistro causate dalla bomba a mano che gli era esplosa addosso. Emer nell’intervista ricordò il numero di matricola e quasi tutti i nomi dei suo compagni di lager a Bolzano. Del giorno della liberazione disse: «Eravamo tutti increduli, sembrava di affacciarsi su un altro mondo, di fronte alla realtà che non conoscevamo più, che avevamo dimenticato. Vedere altra gente, movimento…».
Emer si ricordò anche le persone da cui era meglio stare alla larga, come i due aguzzini ucraini che potevano far fare una brutta fine a chi avesse incrociato il loro passo o «La Tigre», la feroce donna che stava per farlo assalire dai cani. «Da Bolzano con i cani che c’erano non si andava via», raccontò in un’altra intervista Luigi Isola, originario della provincia di Savona. Isola aveva poco più di vent’anni quando venne arrestato e portato a Bolzano, perché era comunista, ma ci rimase solo cinque giorni. Isola venne deportato poi a Mauthausen e Birkenau e in totale sopravvisse a cinque lager. È rimasta per poco tempo nel lager anche Ida Desandrè, da Aosta, nata il 10 ottobre 1922. Dopo aver trascorso venti giorni a Bolzano, il 10 ottobre del ‘44 partì verso il campo di concentramento di Revensbrück, poi Bergen Belsen. Le accuse verso Ida erano comuni: lei era moglie di un militare scappato dopo l’armistizio e, blandamente, partecipò alla resistenza. Il giorno della liberazione tornò con il convoglio passando dal Brennero con stazione a Bolzano, da dove era partita, ma stavolta poteva andarsene da donna libera. Oltre a una rete di solidarietà interna tra detenuti (le donne ebbero un ruolo fondamentale), nel lager di Bolzano qualcuno riuscì a far passare anche viveri e denaro.
Don Guido Pedrotti, nome che ricordò anche Emer, venne scoperto e deportato prima a Mauthausen e poi a Dachau. Il giorno della liberazione cantò, arrivando di nuovo al Brennero: «Mamma son tanto felice, perché ritorno da te!», al posto di Fratelli d’Italia, Giovinezza e Bandiera rossa, proposte dai compagni di convoglio. Pedrotti non volle mai ricordare il suo numero di matricola. Questi, però, come i precedenti, sono solo frammenti di storie più complesse, che forse potranno condurre il lettore a risalirvici; sono le storie originali di chi è morto e di chi è sopravvissuto, che ha avuto il compito ingrato di raccontare anche le storie dei primi e, innanzitutto, di ricordare i loro nomi.