Emigrazione giovanile, quel doppio filo su cui riflettere
Dobbiamo ammetterlo una volta per tutte. I nostri emigranti partirebbero comunque, perché cercano chance e opportunità che da noi, semplicemente, non ci sono: non in maniera assoluta, ma in termini relativi, non abbastanza, non per tutti. I salari sono troppo bassi, e se hai una qualificazione di qualche tipo ti conviene spenderla altrove. Lo stesso motivo per cui non siamo attrattivi: perché mai uno straniero, dato il differenziale salariale, dovrebbe venire da noi? E infatti arriva solo chi accede a ruoli apicali, ben pagati per definizione (manager, dirigenti, tecnici, poco altro) e chi al contrario trova un miglioramento anche solo nell’accedere a un lavoro purchessia, rifiutato dagli italiani (i lavori dirty, dangerous and demeaning, sporchi, pericolosi e degradanti — e, aggiungiamo, malpagati e non protetti — che infatti gli immigrati accettano anche in presenza di qualificazioni più elevate).
Dopodiché, bisogna uscire dal solo paradigma salariale. Chiunque abbia qualche esperienza della nostra emigrazione — giovanile ma non solo — sa che il differenziale salariale ha un buon effetto di spinta (o se si preferisce di attrazione), ma un assai più modesto effetto di ritorno. In altre parole, chi parte, attratto da salari più elevati, ma anche e forse soprattutto da Paesi meglio funzionanti, con maggiore attenzione al merito, sistemi di welfare più protettivi, aperti alle differenze (di tutti i tipi: culturali, nazionali, etniche, religiose, sessuali), più rispettosi dell’uguaglianza di genere, molto meno gerontocratici, con maggiore mobilità sociale, poi, in buona parte, anche a parità di offerta salariale, non tornerebbe indietro. Ecco perché lavorare sui salari di ingresso (incentivi, cuneo fiscale e quant’altro) è ovviamente doveroso e necessario, ma è solo un pre-requisito, di per sé insufficiente. E lavorare sul resto è naturalmente un lavoro di lungo periodo e assai più complicato, a cui nessuna élite (tanto meno in ambito politico) ha mai voluto veramente mettere mano. Perché ci sono precise rendite politiche legate a questi elementi: dalla chiusura mentale (pluralismo culturale e religioso, orientamento sessuale) alla xenofobia (con annessa logica del capro espiatorio nei confronti degli immigrati: «prima gli italiani», o i trentini o altoatesini, a scelta) fino alla gerontocrazia (che include tanti aspetti: da quota 100 a una mentalità che non farebbe mai entrare un trentacinquenne — peggio se donna — in un consiglio d’amministrazione). E perché presuppone lungimiranza e investimenti: in una parola costa in conoscenze (a cominciare dall’abc della demografia), in capacità di visione (che non è data: si conquista, con la cultura e il confronto) e in investimenti, cioè in denaro (che andrebbe tolto alle rendite e ai settori parassitari). Per cui, prendiamo questo dibattito come un inizio di discussione. Sperando — e non è per nulla scontato — che continui.