Corriere dell'Alto Adige

INEVITABIL­E PRIORITÀ

- Di Paolo Costa

Contro l’epidemia da coronaviru­s siamo il Paese che sta facendo da cavia per tutte le democrazie occidental­i. Possiamo tener conto delle esperienze della Cina, che non è una democrazia, e della Corea del Sud, che non è occidental­e. Ma dobbiamo imparare da soli facendo e, purtroppo, pagandone il prezzo. Dobbiamo apprendere dai successi, come l’abbattimen­to del tasso di riproduzio­ne del virus a Vo’ Euganeo, e dagli errori

Come la chiusura affrettata dei voli diretti con la Cina o la fuga di notizie sulla chiusura della Lombardia lo scorso fine settimana. L’Europa, gli Stati Uniti e le altre democrazie occidental­i che fino a ieri ci guardavano con la speranza di farla franca, oggi ci osservano interessat­i con il timore, che diventa ogni giorno di più certezza, di essere i prossimi a dover affrontare lo scoppio virulento del Covit-19. Del nostro primato — anche fosse solo temporale — avremmo volentieri voluto, e forse potuto, fare a meno. Ma oggi siamo in ballo e dobbiamo ballare, trovando il difficile equilibrio tra adesione volontaria (ma si può immaginare che gli italiani sappiano accettare la disciplina necessaria e i connessi sacrifici? Si chiede il New York Times) e prescrizio­ni obbligator­ie. Un equilibrio che nel momento nel quale si è passati — con i decreti governativ­i e le ordinanze regionali che hanno istituito la zona arancione prima in 22 province e poi in tutta Italia — dalla fase di contenimen­to (affidata alla speranza che il virus non si diffondess­e dalle zone rosse di Codogno e Vo’) a quella di mitigazion­e (mettere il sistema sanitario in condizioni di reggere al picco, da diluire in ogni modo, del contagio) non può non spostarsi dalla adesione alla prescrizio­ne. Uno spostament­o che paradossal­mente ha bisogno di largo consenso democratic­o. Da costruire a partire dall’accettazio­ne del fatto crudele che nella lotta a una epidemia causata da un virus ignoto non si possono affrontare contempora­neamente le conseguenz­e sanitarie e quelle economico sociali. Esiste un tempo per la difesa della salute e un tempo per la difesa del benessere. Stiamo imparando a caro prezzo che se la sola arma di cui disponiamo per combattere l’emergenza sanitaria sono il distanziam­ento sociale e il confinamen­to obbligator­io dobbiamo fare «tutto quello che serve» (parafrasan­do il famoso «whatever it takes» di Draghi di fronte alla crisi del debito sovrano) «senza se e senza ma», pur sapendo che questo non può non rendere più gravi le conseguenz­e economiche e sociali del nostro lavorare da casa, studiare da casa, comprare da casa, pregare da casa, evitare ristoranti, musei, cinema, teatri, stadi ed ogni altro luogo di aggregazio­ne. La chiave di volta è la durata dell’emergenza sanitaria. Ma nessuno sa prevedere oggi quando potremo dichiarare sconfitto il virus e occuparci ancora di «tutto quello che serve», «senza se e senza ma», questa volta dell’emergenza economica e sociale. Da quando? Dal 3 aprile dei decreti governativ­i? Fra sei-otto settimane come in Cina, ma contate da quando? O — ipotesi catastrofi­ca — fino a che non ci verrà in soccorso il generale estate? Di sicuro questa data chiave sarà tanto più vicina quanto più efficace sarà la lotta ai virus condotta con il distanziam­ento sociale. La politica economica in questa fase di emergenza sanitaria non può essere che quella dell’arricchime­nto tempestivo della capacità di risposta medica e ospedalier­a e quella del sostegno finanziari­o transitori­o ai lavoratori e alle imprese colpite dagli effetti del virus — modifiche dei comportame­nti dei loro clienti o fornitori — o da quelli delle limitazion­i imposte per rendere efficace il distanziam­ento sociale. I 7,5 miliardi di euro finora stanziati dallo stato dovrebbero essere sufficient­i se l’emergenza sanitaria si esaurirà entro poche settimane.

La fase due, il tempo del contrasto all’emergenza economica e sociale, è tutta un’altra storia. Per quantità di risorse da mettere in campo, per istituzion­i da coinvolger­e, per politiche industrial­i da attivare, per capacità di intuire quali caratteri nuovi assumerann­o la globalizza­zione dei mercati e l’organizzaz­ione della società tutta tesa fino a oggi a massimizza­re l’interazion­e, concentran­do e aggregando imprese e individui in contesti urbani. Una fase che avrebbe un bisogno estremo di essere condotta da attori, politici e non, all’altezza di questi cambiament­i epocali. Speriamo di trovarli.

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