Appiano, femminicidio annunciato «Barbara non è stata protetta»
Rabbia per la morte di Barbara. Gea: la tragedia poteva essere evitata La Cgil: sconfitta per tutti L’assassino era finito ai domiciliari per stalking. La liberazione dopo un percorso psichiatrico
Quella che si è consumata mercoledì ad Appiano è una tragedia che poteva essere evitata. Le associazioni delle donne alzano la voce per chiedere un’applicazione più rigida del codice rosso. «Anche questa volta purtroppo, come nella maggior parte dei femminicidi, non si può parlare di incidente — denuncia Gea —. Barbara Rauch aveva chiesto aiuto alle forze dell’ordine e alla magistratura, denunciando ripetutamente il suo persecutore per stalking». Emergono infatti nuovi dettagli sul procedimento in cui Lukas Oberhauser era imputato: prima, per mesi, la persecuzione sui social; poi la denuncia e il divieto di avvicinamento che il giovane non ha rispettato; poi, a giugno, gli arresti domiciliari, revocati a dicembre, quando era stato tolto anche l’obbligo di firma.
Una tragedia evitabile. Ma soprattutto evitabile. Dopo il brutale omicidio di Barbara Rauch, le associazioni delle donne alzano la voce per chiedere un’applicazione più rigida del codice rosso. Intanto emergono nuovi dettagli sul procedimento per stalking in cui Lukas Oberhauser era imputato. Dopo una persecuzione durata mesi, anche sui social, Barbara Rauch lo aveva denunciato per stalking e il questore gli aveva notificato il divieto di avvicinamento. Una misura che il giovane cuoco di Vilpiano non ha rispettato tanto che, lo scorso giugno, erano scattati gli arresti domiciliari. Oberhauser aveva continuato a lavorare nel ristorante di famiglia e, in l’estate, aveva avuto anche degli incontri con uno psichiatra. Anche per questo i domiciliari erano stati revocati. Poi, il 10 dicembre, era stato tolto anche l’obbligo di firma in modo da consentire al giovane di andare a fare la stagione in montagna. Sembrava che si fosse tolto dalla testa l’idea di conquistare Barbara ma non è stato così. Lunedì sera l’ha aspettata all’uscita della Bordeauxkeller e l’ha uccisa a coltellate.
Il fatto che l’omicida non fosse sottoposto ad alcun provvedimento fa infuriare le associazioni delle donne che denunciano l’inerzia del sistema giustizia.
«Anche questa volta purtroppo, come nella maggior parte dei femminicidi, non si può parlare di incidente, di sorpresa, di colpo di destino inesorabile. La donna aveva chiesto aiuto alle forze dell’ordine e alla magistratura, denunciando ripetutamente il suo persecutore per stalking.
Purtroppo — denuncia l’associazione Gea che da 20 anni si occupa di violenza sulle donne — dobbiamo ripetere e denunciare che ancora non si fa abbastanza, che le donne in situazione di violenza ancora non trovano una chiara condanna degli autori con adeguati provvedimenti che le garantiscano sicurezza. La lettura delle situazioni di violenza alle donne è ancora permeata da pregiudizi, stereotipi, ignoranza e noncuranza delle norme internazionali che ancora non vengono applicate in Italia. I professionisti della giustizia, delle Forze dell’ordine e dei servizi responsabili per le famiglie, a volte mettono ancora in discussione la chiara e univoca responsabilità dell’uomo violento. La maggior parte dei femminicidi ha alle spalle, percorsi faticosi tra servizi e Tribunali, denunce che non hanno portato all’unica risposta adeguata che si aspettano le donne: protezione e sicurezza. Come associazione Gea non possiamo non essere preoccupate da quei provvedimenti che permettono all’ autore di un tentato omicidio di vivere tranquillamente da uomo libero mentre la donna e i figli devono rifugiarsi in un luogo segreto».
A farsi sentire è anche la Cgil che ha attaccato uno striscione fuori dalla sede e chiede di mettere dei drappi rossi fuori dalle finestre. «Questo ennesimo femminicidio è l’ennesima sconfitta per tutti. Le leggi vanno applicate in maniera rigorosa» avverte la segretaria della Cgil Cristina Masera. «Non possiamo accettare che una donna che denuncia non sia protetta» aggiunge Elida Della Lucia.
Masera «Mettiamo drappi rossi alle finestre per chiedere l’applicazione rigorosa delle leggi»