CASO SUAREZ E NUOVI CITTADINI
Mi capita periodicamente di commentare delle vicende in odore di «raccomandazione», visto che mi sono occupata del tema di clientelismo nel corso delle mie ricerche. L’ultimo caso della serie è l’attuale affaire legato al calciatore Luis Suarez.
Èsotto gli occhi di tutti come, in tempi velocissimi, al calciatore uruguayano Luis Suarez è stato somministrato un esame di lingua italiana Livello B1. L’esito positivo del test avrebbe costituito un tassello fondamentale per una rapida concessione della cittadinanza italiana, in vista di un eventuale suo approdo alla Juventus. Lascio che la magistratura faccia il suo lavoro, deciderà se ci sono effettivamente delle irregolarità o meno, e se ce ne sono, se sono riconducibili ad azioni che configurano dei reati. In fondo non sono affatto rari nel mondo dello sport i cambi di casacca facilitati con la concessione della cittadinanza. Penso, per citarne uno, alla coppia vincitrice dell’oro olimpico nel pattinaggio su ghiaccio a Pyeong Chang 2018, la ex-ucraina Aliona Savchenko e l’exfrancese Bruno Massot, che gareggiavano sotto la bandiera tedesca. Mi chiedo se il caso di Suarez non sia stato messo sotto la lente di ingrandimento perché, a differenza del contesto di una squadra nazionale — che raccoglie più o meno dei consensi — il mondo rissoso della tifoseria dei club non ha sopportato l’idea di un tale vantaggio sleale per la Juve. Comunque sia, la vicenda del test linguistico di Suarez mette in evidenza, per contrasto, l’ingiustizia che sperimentano centinaia di migliaia di aspiranti concittadini. Tra questi si annoverano soprattutto i giovani figli di genitori immigrati in Italia, che ancora aspettano una riforma della legge sulla cittadinanza, nel senso dello ius soli o dello ius cultura che sia. Attualmente chi nasce in Italia e ci risiede ininterrottamente fino ai 18 anni può chiedere la cittadinanza italiana al compimento dei 18 anni. Ma ha un anno di tempo per fare la richiesta, e l’esito favorevole non è affatto automatico né rapido. Se si pensa che i figli di immigrati sotto i 18 anni in Italia sono circa un milione, pressoché 10% della popolazione di quella fascia di età, diventa evidente l’enormità del problema. Si tratta di ragazzi che, per la stragrande maggioranza, sono nati in Italia, parlano i nostri dialetti locali, frequentano le nostre scuole, nella sostanza sono molto più partecipi nella comunità nazionale che tantissimi discendenti di emigranti italiani, che invece hanno la pista accelerata per la cittadinanza in virtù del principio dello ius sanguinis.
Come tutte le leggi sulla cittadinanza, però, lo ius sanguinis, non è altro che un tentativo di rendere naturale (ergo «naturalizzare») uno status che non è affatto naturale: le leggi sono create dalla società, che definisce così chi ne diventerà membro legittimo, cioè cittadino. Certo, essere un fuoriclasse dello sport per guadagnarsi la cittadinanza non è alla portata di tutti, tuttavia abbiamo visto non pochi casi di cronaca in cui cittadini stranieri hanno dimostrato altri «meriti speciali» degni del conferimento della cittadinanza. In questo modo, per esempio, fu concessa la cittadinanza a Ramy Shehata e Adam El Hamami, i due giovani figli di immigrati che sventarono la strage della scuolabus a San Donato Milanese nel marzo 2019. Sono contenta per loro che ce l’abbiano fatta, ma sarebbe più sensato e giusto modificare la legge a monte: i cittadini non italiani non sono più o meno supereroi (né criminali) dei cittadini italiani, e non si dovrebbe aspettare il fatto straordinario per renderli cittadini alle pari. Abbiamo visto nelle recenti elezioni che anche in Trentino-Alto Adige cresce la presenza dei nuovi cittadini come candidati in gran parte delle liste. Anche questo è segno di una graduale riconoscimento e normalizzazione di questo segmento all’interno della società. Il cambiamento della legge sulla cittadinanza non è altro che un ulteriore passo in questa direzione.