RAGIONE E SRAGIONE A PILCANTE
Le Navi dei folli solcavano un tempo i fiumi delle città europee trasportando il loro carico di «insensatezza». Filavano in Renania, come nei canali fiamminghi, in epoca rinascimentale, per assecondare una nascente esigenza di ordine sociale e produrre una simbologia relativa a queste figure disomogenee, a metà strada tra un demone e un argonauta. Sono l’anticipo dei sistemi di divieti che sarebbero stati messi a tema successivamente e che ora venivano invece imbarcati sui vascelli appresso ai folli, espulsi di città in città, cittadini errabondi di un altrove eternamente in movimento. La cacciata dei folli dalla città aveva spesso una dimensione rituale: potevano essere frustati pubblicamente o inseguiti per le strade prima di essere esiliati insieme ai loro discorsi sconnessi, alle immagini traslate, alle metafore di una mente che univa reale e immaginario. Questo probabilmente era — ricostruisce Michel Foucault nella «Storia della follia» — il trattamento riservato soprattutto agli stranieri, cioè coloro che esibivano una doppia diversità. Mentre gli ospedali dispensavano qualche cura agli emarginati autoctoni e i primi luoghi di detenzione per «alienati» avevano fatto la loro comparsa. È stato, tuttavia, con l’eliminazione della lebbra che nel mondo occidentale si sono aperti territori inesplorati e spazi di separazione inediti (i lebbrosari) che solleciteranno «una nuova incarnazione del male, un’altra smorfia della paura». Quella del folle.
La medicina ha assegnato uno statuto scientifico a questa condizione, tracciando un solco che ha diviso per sempre normale e patologico, ragione e sragione, privandoli di un dialogo. E che ha coperto (scientificamente) la violenza dei manicomi dove disagio mentale e sociale — accomunati nella «devianza» — tendevano a intrecciarsi. Gli archivi dell’ex manicomio di Pergine traboccano ancora di storie, spesso con una genesi di povertà e denutrizione.
L’esperienza a Gorizia e Trieste di Basaglia, le lotte in Europa per la chiusura dei manicomi e il reinserimento nella società di queste penombre, la decostruzione filosofica di dei sistemi di idee che li concepirono si scontrano ancora oggi con una rappresentazione che sembra rivolgersi al passato più che al presente. Con l’uccisione di Matteo Tenni nel vialetto di casa a Pilcante di Ala sono riaffiorate le antiche paure, i pregiudizi, le asimmetrie. Soprattutto nella radicata convinzione che in fondo a morire è stata una vita diminuita, un «insensato» che sui social sovrapponeva alieni e carabinieri, l’indizio che colloca Matteo oltre la soglia del normale. Invece l’alieno è etimologicamente l’altrui, l’estraneo e la percezione di Matteo si è trasformata in una predizione.
Molto è stato fatto per garantire alle penombre una luce piena e una parte della psichiatria ha insistito affinché venisse riassemblato l’uomo/donna, dignità inclusa, anche se i loro diritti dipendono strettamente dal funzionamento dei servizi territoriali, dalla capacità di cogliere l’altalena degli stati d’animo. Poco è stato fatto, tuttavia, per migliorare lo sguardo complessivo della società, per guarirci dall’attrazione verso i modelli di contenzione obbligatoria e i surrogati delle istituzioni totali e per educarci a cancellare quella linea che riduce la malattia a differenza quantitativa e che si propone di operare sempre una divisione del mondo. Tra normali e anormali.
Rifletteva Foucault, più di cinquant’anni fa in una conferenza all’università di Tokyo, sul fatto che i «folli» fossero l’unica categoria di marginali esclusa contemporaneamente dai quattro piani dell’esistenza: dal lavoro e dunque dalla produzione di valore; dalla famiglia e quindi dalla riproduzione della società; dalla parola perché il loro discorso non ha cittadinanza; dal gioco dal momento che ne sono spesso la vittima designata. In tempi più recenti si è allentato il meccanismo di marginalizzazione, ma forse non a sufficienza. E il rischio è che questa esclusione — dalla parola innanzitutto, che investe anche la sfera degli affetti del folle — abbia un riverbero post mortem. Non ci può essere leggerezza, Matteo non era un poverino, ma una persona con diritti e fragilità. Che richiedono formazione e consapevolezza da parte di chi li approccia. E delicatezza per scongiurare che quei fantasmi alieni svolazzino più del dovuto.
Per questo ogni approfondimento che sarà messo in campo — dalla Procura, nei carabinieri, nel sistema sanitario, nella società — utile per capire, per diradare le ombre, avrà un senso se, osservando Matteo, ritroveremo una parte di noi e non il matto del paese. Ragione e sragione, che a Pilcante hanno danzato insieme un ballo disperato, rivelando la loro ambigua collocazione, devono riconciliarsi nella cultura occidentale. Solo così potremo avere un altro sguardo. E un’altra rappresentazione del mondo dove transita la nostra comprensione, intesa come conoscenza e come responsabilità verso il prossimo.