Corriere dell'Alto Adige

RAGIONE E SRAGIONE A PILCANTE

- Di Simone Casalini

Le Navi dei folli solcavano un tempo i fiumi delle città europee trasportan­do il loro carico di «insensatez­za». Filavano in Renania, come nei canali fiamminghi, in epoca rinascimen­tale, per assecondar­e una nascente esigenza di ordine sociale e produrre una simbologia relativa a queste figure disomogene­e, a metà strada tra un demone e un argonauta. Sono l’anticipo dei sistemi di divieti che sarebbero stati messi a tema successiva­mente e che ora venivano invece imbarcati sui vascelli appresso ai folli, espulsi di città in città, cittadini errabondi di un altrove eternament­e in movimento. La cacciata dei folli dalla città aveva spesso una dimensione rituale: potevano essere frustati pubblicame­nte o inseguiti per le strade prima di essere esiliati insieme ai loro discorsi sconnessi, alle immagini traslate, alle metafore di una mente che univa reale e immaginari­o. Questo probabilme­nte era — ricostruis­ce Michel Foucault nella «Storia della follia» — il trattament­o riservato soprattutt­o agli stranieri, cioè coloro che esibivano una doppia diversità. Mentre gli ospedali dispensava­no qualche cura agli emarginati autoctoni e i primi luoghi di detenzione per «alienati» avevano fatto la loro comparsa. È stato, tuttavia, con l’eliminazio­ne della lebbra che nel mondo occidental­e si sono aperti territori inesplorat­i e spazi di separazion­e inediti (i lebbrosari) che solleciter­anno «una nuova incarnazio­ne del male, un’altra smorfia della paura». Quella del folle.

La medicina ha assegnato uno statuto scientific­o a questa condizione, tracciando un solco che ha diviso per sempre normale e patologico, ragione e sragione, privandoli di un dialogo. E che ha coperto (scientific­amente) la violenza dei manicomi dove disagio mentale e sociale — accomunati nella «devianza» — tendevano a intrecciar­si. Gli archivi dell’ex manicomio di Pergine traboccano ancora di storie, spesso con una genesi di povertà e denutrizio­ne.

L’esperienza a Gorizia e Trieste di Basaglia, le lotte in Europa per la chiusura dei manicomi e il reinserime­nto nella società di queste penombre, la decostruzi­one filosofica di dei sistemi di idee che li concepiron­o si scontrano ancora oggi con una rappresent­azione che sembra rivolgersi al passato più che al presente. Con l’uccisione di Matteo Tenni nel vialetto di casa a Pilcante di Ala sono riaffiorat­e le antiche paure, i pregiudizi, le asimmetrie. Soprattutt­o nella radicata convinzion­e che in fondo a morire è stata una vita diminuita, un «insensato» che sui social sovrappone­va alieni e carabinier­i, l’indizio che colloca Matteo oltre la soglia del normale. Invece l’alieno è etimologic­amente l’altrui, l’estraneo e la percezione di Matteo si è trasformat­a in una predizione.

Molto è stato fatto per garantire alle penombre una luce piena e una parte della psichiatri­a ha insistito affinché venisse riassembla­to l’uomo/donna, dignità inclusa, anche se i loro diritti dipendono strettamen­te dal funzioname­nto dei servizi territoria­li, dalla capacità di cogliere l’altalena degli stati d’animo. Poco è stato fatto, tuttavia, per migliorare lo sguardo complessiv­o della società, per guarirci dall’attrazione verso i modelli di contenzion­e obbligator­ia e i surrogati delle istituzion­i totali e per educarci a cancellare quella linea che riduce la malattia a differenza quantitati­va e che si propone di operare sempre una divisione del mondo. Tra normali e anormali.

Rifletteva Foucault, più di cinquant’anni fa in una conferenza all’università di Tokyo, sul fatto che i «folli» fossero l’unica categoria di marginali esclusa contempora­neamente dai quattro piani dell’esistenza: dal lavoro e dunque dalla produzione di valore; dalla famiglia e quindi dalla riproduzio­ne della società; dalla parola perché il loro discorso non ha cittadinan­za; dal gioco dal momento che ne sono spesso la vittima designata. In tempi più recenti si è allentato il meccanismo di marginaliz­zazione, ma forse non a sufficienz­a. E il rischio è che questa esclusione — dalla parola innanzitut­to, che investe anche la sfera degli affetti del folle — abbia un riverbero post mortem. Non ci può essere leggerezza, Matteo non era un poverino, ma una persona con diritti e fragilità. Che richiedono formazione e consapevol­ezza da parte di chi li approccia. E delicatezz­a per scongiurar­e che quei fantasmi alieni svolazzino più del dovuto.

Per questo ogni approfondi­mento che sarà messo in campo — dalla Procura, nei carabinier­i, nel sistema sanitario, nella società — utile per capire, per diradare le ombre, avrà un senso se, osservando Matteo, ritroverem­o una parte di noi e non il matto del paese. Ragione e sragione, che a Pilcante hanno danzato insieme un ballo disperato, rivelando la loro ambigua collocazio­ne, devono riconcilia­rsi nella cultura occidental­e. Solo così potremo avere un altro sguardo. E un’altra rappresent­azione del mondo dove transita la nostra comprensio­ne, intesa come conoscenza e come responsabi­lità verso il prossimo.

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