Climate change, i segnali in quota
Il parco Adamello Brenta studia l’impatto del global warming in Trentino Il zoologo Mustoni: «In montagna c’è posto per l’uomo e anche per l’orso»
TRENTO «Per quanto il cambiamento climatico sia un tema globale, anche il Trentino può dare il suo piccolo grande contributo». Ne è convinto Andrea Mustoni, zoologo e responsabile dell’Unità ricerca scientifica ed educazione ambientale del parco Adamello-Brenta. Motivo: «Gli ambienti d’alta quota alpina — spiega Mustoni nel giorno in cui si celebra la Giornata mondiale della Terra — sono un osservatorio privilegiato per rilevare i mutamenti del clima. Sono ambienti freddi e molto delicati, quindi l’impatto del surriscaldamento diventa subito evidente. Attraverso le attività di ricerca del parco e progetti come Biomiti possiamo dare un contributo importante alla comunità scientifica internazionale». Il progetto, che vede il Parco collaborare con il Muse e quattro università italiane (Padova, Pavia, Sassari e Insubria), punta a far lavorare insieme sul territorio esperti di diversi settori, per rimediare a «una sempre più estrema specializzazione della scienza che ha finito per isolare i diversi rami — afferma ancora Mustoni — ma, senza fare i tuttologi, occorre tornare a guardare alla somma delle parti. Qui l’esperto di pipistrelli lavora gomito a gomito con chi studia le falene e insieme capiscono meglio il ruolo di entrambi nelle reti ecologiche».
Le ricerche svolte nella cornice di Biomiti hanno già rivelato l’impatto dei cambiamenti climatici sull’ambiente e la biodiversità del Trentino. Ad esempio sulle Dolomiti è stata notata una progressiva scomparsa di diverse specie di insetti a causa del ridursi delle piogge, che porta all’inaridimento di piccole fonti d’acqua. Si è scoperto anche che i ghiacciai fanno da «condensatori» di pesticidi e cosmetici, ripulendo l’aria e impedendo scendano a quote più basse. I monitoraggi ripetuti nel tempo hanno dimostrato che dal 1996 ad oggi l’arvicola delle nevi, un «topone» d’alta montagna, ha sofferto sempre più la concorrenza di specie di roditori che, originari di quote più basse, riescono a spingersi adesso oltre i 2000 metri. Ma il progetto non è solo ricerca e monitoraggi: «I risultati vengono anche comunicati in maniera accessibile al pubblico, dire “Noi abbiamo osservato questa cosa qua” colpisce. L’obiettivo non è spaventare, quanto creare consapevolezza della natura attorno a noi. C’è una richiesta di cultura ambientale che viene dai cittadini, in particolare dai giovani. Penso sia tempo di puntare soprattutto sull’informazione per la tutela dell’ambiente».
Tutela che secondo Mustoni non passa per forza dall’esclusione dell’uomo dalle aree protette, impossibile in un parco che copre 30 comuni e aree a forte vocazione turistica. «Respingo con forza l’idea che l’uomo sia una malattia per l’ambiente» sostiene lo zoologo. «Ne facciamo parte anche noi, è la nostra casa. In Trentino veniamo da secoli di convivenza, su queste montagne l’intervento umano ha creato un mosaico di habitat ravvicinati ma differenti e flora e fauna si sono adattate al punto da essere messe a rischio proprio dalla scomparsa delle attività umane». Mustoni fa l’esempio della coturnice, un volatile che vive nei pascoli alpini oggi abbandonati, e dei muri a secco sparsi nelle campagne che se osservati con attenzione si rivelano la casa di una varietà di piante, piccoli animali e microclimi. «Lo sfruttamento controllato della montagna è possibile e la ricerca serve proprio per capire meglio questo equilibrio» continua. «Ovviamente senza eccessi, a volte bisogna sapersi accontentare. È un continuo dialogo tra ricercatori ambientali e operatori del turismo, in un sistema integrato».
Discorso che vale anche per l’orso. «Rigoni Stern diceva che in montagna c’è posto sia per l’uomo sia per l’orso, con le giuste forme di convivenza. Al di là della gestione dei singoli esemplari, che vanno rispettati anche se viene prima la tutela della popolazione nel suo complesso, penso che l’orso abbia restituito una certa sacralità alla montagna. Per dire, se sono in una radura con la mia famiglia ora guardo ai confini del bosco con una consapevolezza diversa, mi chiedo se forse non c’è un orso lì da qualche parte. È restituire un’aura di mistero che la foresta ha sempre avuto, ma ce ne eravamo dimenticati, credendola addomesticata e non diversa dal parco sotto casa». E aggiunge: «La fauna selvatica porta sempre problemi. Chiediamoci però che mondo sarebbe senza animali selvatici. E non illudiamoci che si possa rimuovere una singola specie, tutte partecipano all’equilibrio naturale, alcune addirittura non le conosciamo ancora, anche qui sulle Alpi. Solo con la ricerca si possono trovare soluzioni autentiche».