LA STORIA DEL SARTO AHMED
Qualche giorno fa sono stato da Ahmed, nel budellino che accoglie la sua piccola sartoria di piazza Garzetti, a Trento. Indossava una mascherina chirurgica azzurra che a intervalli regolari gli precipitava sulla punta del naso. E lui, con un gesto quasi meccanico, la rialzava. Ahmed e la sua macchina da cucire sono una sagoma unica e anche il sottile suono che esala sembra confondersi con le sue parole e diventare il suo stesso linguaggio. Ha una cura particolare dei suoi clienti, conversazione dopo conversazione ne sussume la vita e la archivia, ricordando tutto. E lui ricambia, anche se con un filo di reticenza, concedendo qualche racconto di Algeri. L’Algeri della colonizzazione francese, l’Algeri della casbah, l’Algeri della decolonizzazione e di Fanon, l’Algeri della guerra civile. Ahmed è sul filo della pensione, è atterrato in Italia molti anni fa e, dopo qualche rimbalzo, si è stabilito a Trento. Era un cuoco, ma in aghi, fili e gessetti ha costruito una nuova identità.
Credo che Ahmed abbia cucito le toppe sui calzoni di tanti/e trentini/e, ne abbia rimodulato gli orli, si sia adattato alle mode del momento per garantire, ad ogni fascia sociale, il suo momento glamour. A volte pone la sedia fuori dal minuscolo locale e osserva la società, nei suoi rituali e nei suoi cambiamenti. Il parco giochi, gli schiamazzi, i genitori, le passanti cantate da Brassens: tutto muta impercettibilmente in ogni momento.
Edescrive questi scostamenti ai suoi clienti. Tanti, per semplicità o pigrizia, lo chiamano il «sarto algerino» e all’entrata ed uscita ti abbina al nome un suo motivo di cortesia: «carissimo». Non è una ripetizione mnemonica, ma una forma di premura che lui esprime.
Ahmed è uno dei tanti «lavoratori sottili» senza i quali la nostra vita sarebbe immiserita. Sottili perché non li vedi, non fanno statistica. Non appartengono al flusso delle nuove professioni a cui spesso, anche retoricamente, si fa riferimento né alla schiera dei soggetti che diventano «emergenza sociale». Non è un imprenditore né un operaio, le figure che, iconicamente, continuano a rappresentare un’ipotetica catena alimentare del lavoro molto ancorata al Novecento perché il capitalismo ha certamente destrutturato quel modello. Non viaggia nemmeno nel flusso del «lavoro liquido» odierno che diminuisce le protezioni in cambio di una sopravvivenza senza progettualità. Un lavoro, su cui si base ancora la Repubblica italiana, in cui si confondono spesso merito, capacità ed estrazione sociale che non sono per tutti uguali.
Come Ahmed, anche le lavoratrici delle pulizie svolgono un ruolo insostituibile. È un’occupazione a prevalenza femminile, sotto qualificato e sottopagato. Operano quando il resto della popolazione lavorativa ha staccato oppure è ancora nella fase del sonno. Tengono pulito il mondo per chi poi lo attraverserà: gli uffici, gli ospedali e le case di riposo (con i rischi connessi alla pandemia), i centri commerciali, gli aeroporti, le stazioni ferroviarie, le scuole e le università, gli alberghi, talvolta — in modo ancora più sommerso — le nostre case. La mobilitazione delle 1500 lavoratrici del settore in Trentino per farsi riconoscere un adeguamento contrattuale ricorda quello delle donne della Gare du nord di Parigi che nel gennaio 2018 sconfissero la loro società di pulizie dopo 45 giorni di sciopero che rese impraticabile uno dei simboli del nostro viaggiare. Paris, mon amour.
La dignità del lavoro si ritrova sempre nei gesti di chi dà senso a questa parola — che sia lavoratore/trice o imprenditore/trice —, ormai obliata anche dalla politica. Nel rammendo di Ahmed o nel panno che scivola su una scrivania prendono forma delle esistenze. Il migliore modo per celebrarle, e per difendere quindi il lavoro, è quello di restituire loro una corretta filologia. Un nome, una storia. Buon primo maggio.