Corriere dell'Alto Adige

GIUSTIZIA, LA POSTA IN GIOCO

- Di Mario Bertolissi

Tra le varie obiezioni al sì ai referendum sulla giustizia del 12 giugno, ve ne sono almeno tre di pregiudizi­ali, sulle quali vale la pena di soffermars­i. Si sostiene, in primo luogo, che la materia deve essere regolata dal Parlamento. Quindi, che i referendum sono contro la Magistratu­ra. Infine, che, se approvati, ne metterebbe­ro a rischio l’autonomia e l’indipenden­za. Naturalmen­te, silenzio assoluto sugli episodi che hanno delegittim­ato l’ordine giudiziari­o, il cui prestigio deve essere recuperato attraverso una critica spietata di condotte miserabili. Se tenute da un uomo pubblico, costituire­bbero reato, che i diretti interessat­i — i magistrati coinvolti — si sono, in questo caso, premurati di escludere. Davvero, è penalmente irrilevant­e «concertare», in vista dell’attribuzio­ne di un incarico direttivo a persona gradita, con scambio di voti tra correnti? Ecco perché questa non commendevo­le prassi — vero e proprio «mercato», risalente alla notte dei tempi — esclude sia fondata la prima delle obiezioni. Infatti, da più parti, nel corso di decenni, si è chiesto o auspicato che fossero le Camere a legiferare, ponendo fine alla degenerazi­one delle correnti, divenuta correntism­o. Fu una preoccupaz­ione di Costantino Mortati, la cui ultima denuncia risale al 1976: a 46 anni fa! Da allora, di male in peggio, anche perché il Consiglio superiore della magistratu­ra, non infrequent­emente, si è addirittur­a rifiutato di dare esecuzione alle sentenze del Consiglio di Stato, che hanno annullato suoi provvedime­nti illegittim­i.

Così, non rimane altro da fare che ricorrere al referendum abrogativo. Vi sono costrette anche le forze politiche presenti in Parlamento, quando, da sole, non sono in grado di incrinare intese contrarie insuperabi­li. A guardare ai fatti, per quello che sono, è la Magistratu­ra, che agisce contro sé stessa. A dire il vero, è una sua piccola parte – quella che ama apparire, intervenir­e, discorrere, processare mediaticam­ente – che ha gettato il discredito sui più: su quanti lavorano instancabi­lmente, nell’ombra. Se si consideran­o le Procure e i Tribunali delle Regioni nordestine, è doveroso concludere che ogni magistrato compie il suo dovere, senza clamore. Come dovrebbe essere, perché vale, per coloro che sono chiamati ad amministra­re e rendere giustizia, la più sacrosanta delle preoccupaz­ioni: consiste nell’evitare scrupolosa­mente di colpire l’innocente. Tant’è vero che Calamandre­i – nell’elogiare, nonostante tutto, i giudici – ricordava l’ossessione di alcuni di essi: quella dell’“errore giudiziari­o”. Ora, se ne commettono continuame­nte e l’Italia è condannata, dalla Corte di Strasburgo, a risarcire i danni da ingiusta e prolungata detenzione. Un piccolo ed insignific­ante ristoro economico per essere stati carcerati a sproposito. Lesi nella propria dignità, spesso abbandonat­i dai familiari, mediaticam­ente distrutti. Tuttavia, i magistrati che calcano la scena sembrano immuni da questo genere di preoccupaz­ioni. Il dolore è non loro, ma di altri! Quindi, non è dolore. Ed è grave – anzi, gravissimo – perché “la giustizia nasce dal dolore”, nota ancora Calamandre­i. I magistrati che la pensano, invece, così, e si comportano di conseguenz­a, stanno in disparte. I referendum, con tutti i loro limiti, ne interpreta­no il disagio e reclamano un radicale cambiament­o di stile nell’esercizio dell’azione penale.

Quanto all’autonomia e all’indipenden­za messi a rischio, nulla di più infondato. Non vi sono autonomia e indipenden­za senza responsabi­lità. Senza valutazion­i serie sulle condotte e sull’operosità. E’ verosimile che il 98% dei magistrati sia da elogiare? Che il metodo migliore per valutare sia quello di autovaluta­rsi? Dice niente il brocardo “nemo iudex in causa propria”? In ogni caso, la Corte costituzio­nale ha rilevato che “l’indipenden­za della magistratu­ra trova la prima e fondamenta­le garanzia nel senso del dovere dei magistrati e nella loro obbedienza alla legge morale” (sentenza n. 168/1963).

Non c’è da stupirsi, allora, se, con il quesito n. 1 (scheda rossa), si tende a far sì che sia il giudice a stabilire, a seconda dei casi, se una persona è incandidab­ile, evitando esclusioni automatich­e per reati bagatellar­i, quale l’abuso d’ufficio, in presenza di una sentenza solo di primo grado (non definitiva). Se, con il quesito n. 2 (scheda arancione), si mira ad evitare carcerazio­ni ingiustifi­cate. Se, con il quesito n. 3 (scheda gialla), si pretende che un magistrato decida, una volta per tutte e fin dall’inizio della carriera, se vuole inquisire (dirigere la polizia giudiziari­a) o giudicare (in posizione di terzietà), dal momento che sono due attività psicologic­amente inconcilia­bili. Se, con il quesito n. 4 (scheda grigia), si consente a professori universita­ri ed avvocati (in numero limitato e mai decisivi) di concorrere alla valutazion­e di un magistrato. Se, con il quesito n. 5 (scheda verde), ci si propone di inviare un segnale di disapprova­zione del metodo correntizi­o, liberando – chi si intende candidare – dall’onere di raccoglier­e firme di sostegno. È poca cosa, si mormora. Lo è, anche perché il referendum è necessaria­mente un atto di legislazio­ne negativa. Ma la vittoria dei sì (anche a prescinder­e dal quorum di partecipaz­ione) rappresent­erebbe, comunque, un segnale. Perché le cose, come vanno, non vanno affatto bene!

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