GIUSTIZIA, LA POSTA IN GIOCO
Tra le varie obiezioni al sì ai referendum sulla giustizia del 12 giugno, ve ne sono almeno tre di pregiudiziali, sulle quali vale la pena di soffermarsi. Si sostiene, in primo luogo, che la materia deve essere regolata dal Parlamento. Quindi, che i referendum sono contro la Magistratura. Infine, che, se approvati, ne metterebbero a rischio l’autonomia e l’indipendenza. Naturalmente, silenzio assoluto sugli episodi che hanno delegittimato l’ordine giudiziario, il cui prestigio deve essere recuperato attraverso una critica spietata di condotte miserabili. Se tenute da un uomo pubblico, costituirebbero reato, che i diretti interessati — i magistrati coinvolti — si sono, in questo caso, premurati di escludere. Davvero, è penalmente irrilevante «concertare», in vista dell’attribuzione di un incarico direttivo a persona gradita, con scambio di voti tra correnti? Ecco perché questa non commendevole prassi — vero e proprio «mercato», risalente alla notte dei tempi — esclude sia fondata la prima delle obiezioni. Infatti, da più parti, nel corso di decenni, si è chiesto o auspicato che fossero le Camere a legiferare, ponendo fine alla degenerazione delle correnti, divenuta correntismo. Fu una preoccupazione di Costantino Mortati, la cui ultima denuncia risale al 1976: a 46 anni fa! Da allora, di male in peggio, anche perché il Consiglio superiore della magistratura, non infrequentemente, si è addirittura rifiutato di dare esecuzione alle sentenze del Consiglio di Stato, che hanno annullato suoi provvedimenti illegittimi.
Così, non rimane altro da fare che ricorrere al referendum abrogativo. Vi sono costrette anche le forze politiche presenti in Parlamento, quando, da sole, non sono in grado di incrinare intese contrarie insuperabili. A guardare ai fatti, per quello che sono, è la Magistratura, che agisce contro sé stessa. A dire il vero, è una sua piccola parte – quella che ama apparire, intervenire, discorrere, processare mediaticamente – che ha gettato il discredito sui più: su quanti lavorano instancabilmente, nell’ombra. Se si considerano le Procure e i Tribunali delle Regioni nordestine, è doveroso concludere che ogni magistrato compie il suo dovere, senza clamore. Come dovrebbe essere, perché vale, per coloro che sono chiamati ad amministrare e rendere giustizia, la più sacrosanta delle preoccupazioni: consiste nell’evitare scrupolosamente di colpire l’innocente. Tant’è vero che Calamandrei – nell’elogiare, nonostante tutto, i giudici – ricordava l’ossessione di alcuni di essi: quella dell’“errore giudiziario”. Ora, se ne commettono continuamente e l’Italia è condannata, dalla Corte di Strasburgo, a risarcire i danni da ingiusta e prolungata detenzione. Un piccolo ed insignificante ristoro economico per essere stati carcerati a sproposito. Lesi nella propria dignità, spesso abbandonati dai familiari, mediaticamente distrutti. Tuttavia, i magistrati che calcano la scena sembrano immuni da questo genere di preoccupazioni. Il dolore è non loro, ma di altri! Quindi, non è dolore. Ed è grave – anzi, gravissimo – perché “la giustizia nasce dal dolore”, nota ancora Calamandrei. I magistrati che la pensano, invece, così, e si comportano di conseguenza, stanno in disparte. I referendum, con tutti i loro limiti, ne interpretano il disagio e reclamano un radicale cambiamento di stile nell’esercizio dell’azione penale.
Quanto all’autonomia e all’indipendenza messi a rischio, nulla di più infondato. Non vi sono autonomia e indipendenza senza responsabilità. Senza valutazioni serie sulle condotte e sull’operosità. E’ verosimile che il 98% dei magistrati sia da elogiare? Che il metodo migliore per valutare sia quello di autovalutarsi? Dice niente il brocardo “nemo iudex in causa propria”? In ogni caso, la Corte costituzionale ha rilevato che “l’indipendenza della magistratura trova la prima e fondamentale garanzia nel senso del dovere dei magistrati e nella loro obbedienza alla legge morale” (sentenza n. 168/1963).
Non c’è da stupirsi, allora, se, con il quesito n. 1 (scheda rossa), si tende a far sì che sia il giudice a stabilire, a seconda dei casi, se una persona è incandidabile, evitando esclusioni automatiche per reati bagatellari, quale l’abuso d’ufficio, in presenza di una sentenza solo di primo grado (non definitiva). Se, con il quesito n. 2 (scheda arancione), si mira ad evitare carcerazioni ingiustificate. Se, con il quesito n. 3 (scheda gialla), si pretende che un magistrato decida, una volta per tutte e fin dall’inizio della carriera, se vuole inquisire (dirigere la polizia giudiziaria) o giudicare (in posizione di terzietà), dal momento che sono due attività psicologicamente inconciliabili. Se, con il quesito n. 4 (scheda grigia), si consente a professori universitari ed avvocati (in numero limitato e mai decisivi) di concorrere alla valutazione di un magistrato. Se, con il quesito n. 5 (scheda verde), ci si propone di inviare un segnale di disapprovazione del metodo correntizio, liberando – chi si intende candidare – dall’onere di raccogliere firme di sostegno. È poca cosa, si mormora. Lo è, anche perché il referendum è necessariamente un atto di legislazione negativa. Ma la vittoria dei sì (anche a prescindere dal quorum di partecipazione) rappresenterebbe, comunque, un segnale. Perché le cose, come vanno, non vanno affatto bene!