LE STORIE, I DESTINI, LE PAROLE
Ha più senso, è più produttivo chiedersi «chi» o «che cosa» sia un «migrante»? E se ci decidessimo per la prima opzione — che privilegia il «chi» — potremmo forse capire meglio «che cosa» sta dietro a un processo di migrazione? Porre questioni del genere prestando attenzione alle parole (in questo caso alle sfumature di un certo pronome), non è una preoccupazione sterile, o tutt’al più stilistica. Come sanno bene i linguisti, un codice può avere valore denotativo (in primo luogo ci si riferisce al mondo), connotativo (il riferimento abbraccia quasi sempre possibili significati, oltre quel riferimento primario), ma anche performativo (il mondo cambia, si trasforma a seconda di come viene nominato). Chiedersi allora «chi» sia un «migrante» è quindi molto diverso dal chiedersi «che cosa» sia, perché nel primo caso articoliamo una relazione coinvolgente, ci apriamo alla ricchezza inesauribile di una narrazione nella quale è nascosta tutta la complessità della persona che ci sta di fronte; nel secondo caso, al contrario, il «che cosa» blocca questa indagine, ci svia dal piano personale per cristallizzare una categoria astratta, in genere ereditata da atteggiamenti pregiudiziali. Fatalmente, l’annullamento dei tratti individuali sbarra poi la strada anche alla comprensione delle dinamiche impersonali (e dunque descrivibili in termini astratti) che riguardano i contesti sociali. In una simile cornice teorica — e si tratta di una notizia rinfrancante — ha preso corpo l’iniziativa scolastica di due sezioni del liceo classico Giosuè Carducci.
In breve: coordinate dalle insegnanti Alessia Giangrossi e Novella Carpanese, con la collaborazione della OEW (Organizzazione per un Mondo Solidale) di Bressanone, le studentesse e gli studenti hanno realizzato una serie di 8 podcast in cui sono state raccolte le voci di persone con un background migratorio, proprio al fine di far emergere la particolarità di storie non etichettabili freddamente, in modo sbrigativo, bensì di rendere perspicua la mutevolezza e il contorno sfrangiato di motivazioni ed esiti irriducibili ai cliché consolidati.
Sarà molto interessante ascoltare (e meditare) i podcast scaturiti dal loro lodevolissimo lavoro, giacché si tratta di un approccio scarsamente praticato persino da coloro i quali — intendiamo in primo luogo gli addetti all’informazione, ma anche i politici — dovrebbero sentire tutta la responsabilità dell’uso delle parole. Piuttosto, per trovare riferimenti corroboranti vengono in mente solo eccezioni luminose. Pensiamo per esempio al film «Come un uomo sulla terra», un documentario del 2008 per la regia di Andrea Segre, Riccardo Biadene e Dagmawi Yimer, che rese noto il dramma dei viaggi dalla Libia, o alle opere dello scrittore e giornalista, purtroppo precocemente scomparso, Alessandro Leogrande, autore di fondamentali ricerche (titoli come «La frontiera» o «Il naufragio. Morte nel Mediterraneo» sono ormai dei classici) compiute tutte poggiando su un saldissimo metodo operativo: «Se in questi giorni vai a Taranto — ebbe una volta modo di dire parlando della sua città natale —, sarebbe meglio non iniziare un reportage parlando del diritto alla salute e del diritto al lavoro, ma piuttosto raccontare la storia di un operaio, creando cioè un’unità narrativa intorno a un’unità biografica».
Anche le ragazze e i ragazzi del Carducci hanno voluto creare un’unità narrativa intorno a delle unità biografiche, in modo da imbastire una fondamentale conversione dello sguardo: per capire fenomeni astratti occorre sempre partire dai destini e dalle parole che servono per concretizzarli, dalla concrezione umana di chi li ha animati e può raccontarceli in prima persona.