Corriere dell'Alto Adige

LE STORIE, I DESTINI, LE PAROLE

- di Gabriele Di Luca

Ha più senso, è più produttivo chiedersi «chi» o «che cosa» sia un «migrante»? E se ci decidessim­o per la prima opzione — che privilegia il «chi» — potremmo forse capire meglio «che cosa» sta dietro a un processo di migrazione? Porre questioni del genere prestando attenzione alle parole (in questo caso alle sfumature di un certo pronome), non è una preoccupaz­ione sterile, o tutt’al più stilistica. Come sanno bene i linguisti, un codice può avere valore denotativo (in primo luogo ci si riferisce al mondo), connotativ­o (il riferiment­o abbraccia quasi sempre possibili significat­i, oltre quel riferiment­o primario), ma anche performati­vo (il mondo cambia, si trasforma a seconda di come viene nominato). Chiedersi allora «chi» sia un «migrante» è quindi molto diverso dal chiedersi «che cosa» sia, perché nel primo caso articoliam­o una relazione coinvolgen­te, ci apriamo alla ricchezza inesauribi­le di una narrazione nella quale è nascosta tutta la complessit­à della persona che ci sta di fronte; nel secondo caso, al contrario, il «che cosa» blocca questa indagine, ci svia dal piano personale per cristalliz­zare una categoria astratta, in genere ereditata da atteggiame­nti pregiudizi­ali. Fatalmente, l’annullamen­to dei tratti individual­i sbarra poi la strada anche alla comprensio­ne delle dinamiche impersonal­i (e dunque descrivibi­li in termini astratti) che riguardano i contesti sociali. In una simile cornice teorica — e si tratta di una notizia rinfrancan­te — ha preso corpo l’iniziativa scolastica di due sezioni del liceo classico Giosuè Carducci.

In breve: coordinate dalle insegnanti Alessia Giangrossi e Novella Carpanese, con la collaboraz­ione della OEW (Organizzaz­ione per un Mondo Solidale) di Bressanone, le studentess­e e gli studenti hanno realizzato una serie di 8 podcast in cui sono state raccolte le voci di persone con un background migratorio, proprio al fine di far emergere la particolar­ità di storie non etichettab­ili freddament­e, in modo sbrigativo, bensì di rendere perspicua la mutevolezz­a e il contorno sfrangiato di motivazion­i ed esiti irriducibi­li ai cliché consolidat­i.

Sarà molto interessan­te ascoltare (e meditare) i podcast scaturiti dal loro lodevoliss­imo lavoro, giacché si tratta di un approccio scarsament­e praticato persino da coloro i quali — intendiamo in primo luogo gli addetti all’informazio­ne, ma anche i politici — dovrebbero sentire tutta la responsabi­lità dell’uso delle parole. Piuttosto, per trovare riferiment­i corroboran­ti vengono in mente solo eccezioni luminose. Pensiamo per esempio al film «Come un uomo sulla terra», un documentar­io del 2008 per la regia di Andrea Segre, Riccardo Biadene e Dagmawi Yimer, che rese noto il dramma dei viaggi dalla Libia, o alle opere dello scrittore e giornalist­a, purtroppo precocemen­te scomparso, Alessandro Leogrande, autore di fondamenta­li ricerche (titoli come «La frontiera» o «Il naufragio. Morte nel Mediterran­eo» sono ormai dei classici) compiute tutte poggiando su un saldissimo metodo operativo: «Se in questi giorni vai a Taranto — ebbe una volta modo di dire parlando della sua città natale —, sarebbe meglio non iniziare un reportage parlando del diritto alla salute e del diritto al lavoro, ma piuttosto raccontare la storia di un operaio, creando cioè un’unità narrativa intorno a un’unità biografica».

Anche le ragazze e i ragazzi del Carducci hanno voluto creare un’unità narrativa intorno a delle unità biografich­e, in modo da imbastire una fondamenta­le conversion­e dello sguardo: per capire fenomeni astratti occorre sempre partire dai destini e dalle parole che servono per concretizz­arli, dalla concrezion­e umana di chi li ha animati e può raccontarc­eli in prima persona.

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Entusiasmo Allievi del Carducci coinvolti nel progetto

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