Una scossa e nulla fu come prima
«Non era, insom ma, il vecchio progett o della “forestale” per i trentini che non potevano che studiare forestale. Nella nostra visione, quest’apertura all’esterno era un fermento positivo».
Di sicuro il fermento che portò l’Università dentro la comunità non fu certo banale. Anzi. Per capire l’incidenza di cosa volesse dire mischiare la tradizione con l’eccesso di nuovismo portato da chi giungeva da fuori, basta tornare alla sera in cui morì il Che. Lo racconta Luigi Sardi nel libro «Il pugno e la rotativa. Il 68 nella stampa trentina» (Temi editore, 311 pagine). Bene, quando la notizia fece capolino in televisione, le vie di Trento — abituate fino a quel momento a fare da sfondo a canti di montagna — si ritrovarono invase da cori inneggianti il Che, canzoni come «Bandiera rossa», slogan del tipo: «cloro al clero, diossina alla Dc, piombo tetraetile all’Msi», nato nei corridoi della facoltà di Sociologia. Siamo davanti al punto di non ritorno. La chiusura con il passato e l’inizio di un’altra vita. Ci si interroga su cosa stia succedendo. C’è stupore, ma anche irritazione. Questo grande movimento di massa sembra improvvisamente minacciare ogni cosa, minare antiche certezze. Intanto lievita la contestazione. Il cordone di polizia che sembra abbracciare la Cattedrale è la foto emblema di quel periodo. Annuncia l’arrivo di qualcosa di importante che cambierà la prospettiva del Trentino e dell’intera regione.
Celebrare quindi i sessant’anni dell’Università di Trento rappresenta, oggi, un passaggio fondamentale per comprendere meglio l’evoluzione che ha avuto la società in tutti i campi. Raccontarne attraverso la voce dei protagonisti le fasi di sviluppo costituisce un modo per prendere coscienza di cosa abbiamo tra le mani. Se questa terra è cresciuta, uscendo da un pericoloso isolamento, il merito va all’intuizione avuta da Bruno Kessler nel 1962. Il cammino è stato tortuoso, complicato, in taluni tratti anche difficile da accettare e ancora oggi non del tutto compreso, ma ne è valsa la pena. Perché divulgare, orientare, trasferire tecnologia e saperi alla società è la mission dell’Ateneo. Anche sessant’anni dopo.