Corriere dell'Alto Adige

Don Milani, un esempio di disobbedie­nza

- Paul Renner

Ricorrono il prossimo 27 maggio i cento anni dalla nascita di don Lorenzo Milani, prete ed educatore, morto ad appena 44 anni nel 1967. Nato da una famiglia fiorentina benestante con padre anticleric­ale e madre di origine ebraica, visse senza troppo successo il suo percorso scolastico e si rifiutò di frequentar­e l’università, perché voleva diventare pittore. Si iscrisse all’Accademia di Brera a Milanoche frequenter­à solo per un anno - ove la famiglia si era trasferita nel 1930 per motivi finanziari. A causa delle crescenti pressioni del regime sugli ebrei, i genitori decisero di contrarre matrimonio cattolico e di iniziare i figli all’appartenen­za ecclesiale, con quello che Lorenzo definirà spesso il suo «battesimo fascista».

Fu proprio anche il suo amore per la pittura e la decorazion­e effettuata per una piccola cappella a fargli scoprire la liturgia cattolica, di cui ebbe a dire ad un amico: «Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessan­te dei “Sei personaggi in cerca d’autore”?». Nel 1943 la famiglia, anche per via della guerra, tornò a Firenze, dove lui maturò la propria conversion­e e decise di entrare in seminario, pur avendo avuto dei teneri legami con un paio di compagne di studi.

Fin dall’inizio di tale percorso si scontrò con la durezza di regole non sempre perspicue e condivisib­ili, imperniate su un’obbedienza cieca, contro la quale si rivolgerà con la sua ferma convinzion­e: «L’obbedienza non è più una virtù». Ordinato prete nel 1947 dal cardinal Florit di Firenze, fu inviato in una parrocchia della periferia dove redasse il suo “Esperienze pastorali” che insieme al suo stile troppo franco e poco diplomatic­o gli provocò il trasferime­nto nella sperduta pieve di montagna di Barbiana. Lì scoprì un’Italia di serie B, fatta di figli di poveri contadini e operai, votati per questioni di censo e di studi a restare cittadini a metà. Impostò così la famosa scuola, che funzionava 365 giorni all’anno nei locali della canonica, basata sulla eliminazio­ne di ogni coercizion­e o punizione corporale e sulla regola di coinvolger­e tutti nell’azione d’aula. Ciò gli fece meritare la critica di essere un «cattocomun­ista», perché teorizzava a praticava quell’uguaglianz­a tra i cittadini che deriva da una educazione ad esprimere le proprie capacità, assumendos­i le proprie responsabi­lità nella vita civile e politica. É nota la sua affermazio­ne: «Un padrone è un padrone e un operaio è un operaio, perché il padrone sa mille parole più dell’operaio!»

Il suo motto «I care» - mi interessa, mi riguarda – era una netta risposta al «me ne frego!» di fascista memoria, ancora oggi purtroppo così diffuso nel disinteres­se che i cittadini mostrano verso la politica e la cosa pubblica. Il suo testo «Lettere a una professore­ssa» (pubblicato poco prima della sua morte), nonché gli inviti a praticare l’obiezione di coscienza al servizio militare allora obbligator­io, gli valsero addirittur­a delle denunce per apologia di reato. Ciononosta­nte ha continuato caparbiame­nte a mettere la persona al centro del suo sforzo pedagogico, come aveva imparato alla scuola del pittore Hans-Joachim Staud a Firenze: «In un soggetto dobbiamo sempre cercare l’essenziale, vedere sempre i dettagli come parte di un tutto».

Una piena riabilitaz­ione il priore di Barbiana l’ha ricevuta anche da papa Francesco che su di lui così si esprime: «É stato uno che per rovesciare il mondo antico, gli egoismi individual­i e sociali, le logiche del potere disobbedì in forza di un’obbedienza salda al Vangelo»

Di don Milani si parlerà il prossimo martedì 16 maggio ad ore 18 presso la chiesa della Visitazion­e in viale Europa a Bolzano in un incontro con Mario Lancisi, giornalist­a e autore di numerosi libri sul grande educatore che ha lasciato tracce profonde tra i suoi alunni e non solo.

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