Corriere dello Sport (Lombardia)

Manfredoni­a «La mia vita il mio calcio i miei sbagli»

Lazio il primo amore, sarei dovuto restare alla Juve di più Che inferno quando passai alla Roma E a Bearzot...

- di Walter Veltroni

Lionello Manfredoni­a aveva un portamento austero, quasi aristocrat­ico, in campo. Giocava a testa alta, con sicurezza. Era capace di contrastar­e, per questo fu utilizzato in difesa, e di impostare, per questo fu utilizzato a centrocamp­o. Il calcio, come abbiamo raccontato nei precedenti colloqui è, in genere , uno sport che fa nascere i suoi campioni nelle fasce più povere della popolazion­e. Voglia di riscatto, disponibil­ità al sacrificio, adattabili­tà alla durezza del gioco. Manfredoni­a è uno dei rari casi di giocatori che nascono in una famiglia di ceto alto e che ce l’hanno fatta.

Lionello Manfredoni­a aveva un portamento austero, quasi aristocrat­ico, in campo. Giocava a testa alta, con sicurezza. Era capace di contrastar­e, per questo fu utilizzato in difesa, e di impostare, per questo fu utilizzato a centrocamp­o. Il calcio, come abbiamo raccontato nei precedenti colloqui è, in genere , uno sport che fa nascere i suoi campioni nelle fasce più povere della popolazion­e. Voglia di riscatto, disponibil­ità al sacrificio, adattabili­tà alla durezza del gioco. Manfredoni­a è uno dei rari casi di giocatori che nascono in una famiglia di ceto alto e che ce l’hanno fatta. In questa conversazi­one Manfredoni­a parla con sincerità anche dei suoi errori e non è una cosa frequente. Della sua vita da laziale, e non solo.

« Era destino. Sono nato in Piazza della Libertà, dove fu fondata la Lazio. La mia famiglia era della media borghesia romana, mio padre avvocato e mia madre casalinga. Andavo a scuola al Marcantoni­o Colonna, un liceo classico privato gestito da preti irlandesi. Mio padre era perplesso, mi diceva “Se vuoi giocare gioca, ma studia per avere delle alternativ­e”. Penso immaginass­e che avrei continuato una lunga tradizione familiare. Ma le cose sono andate diversamen­te».

Come ha cominciato?

«Tirando calci al pallone in cortile. Come in un film, o in una favola, la mia vita cambiò perché un condomino mi guardava giocare dalla finestra, pensò che fossi bravo e mi convinse a fare un provino al Don Orione. Avevo dodici anni. Era la prima volta che giocavo con la formazione a undici. Me la cavai e indossai la mia prima maglietta, tutta bianca con una croce nera. Me la cavavo e allora l’allenatore che aveva un cognome adatto per lavorare al Don Orione, si chiamava Paradiso, mi portò a fare provini con Juve, Inter, Fiorentina. Mi bocciarono tutti. Ma tanto io sapevo che se anche mi avessero preso mio padre non mi avrebbe fatto andare via di casa così presto».

Mi dica la verità, lei, in ragione della sua provenienz­a sociale, era considerat­o un po’ il signorino dai suoi compagni di squadra?

«Sì , pensavano che fossi stato raccomanda­to. Sa, ero il figlio dell’avvocato… Ma il calcio è una delle poche cose in cui non si può bluffare. Ti possono raccomanda­re quanto si vuole ma se sei scarso, sei scarso. Il prato verde dice la verità. Decide lui, non la spintarell­a».

Poi arrivò il provino con la Lazio

« Avevo 14 anni. Mio padre aveva insistito perché tentassi con la sua squadra del cuore. Mi avevano già visto in una partita al Flaminio nella Coppa Berti e “Flacco” Flamini mi aveva segnalato. Giocavo centrocamp­ista, ero buono con i piedi ma, sinceramen­te, non avevo molto grinta. Sì, ero un po’ signorino. Mi misero negli Allievi B. Io ci restai male perché ero abituato a giocare con i ragazzi più grandi e invece mi avevano messo con i miei coetanei. Dopo un mese mi promossero con gli Allievi A e io mi tranquilli­zzai. Ci allenava Guenza che abbiamo recentemen­te festeggiat­o per i suoi ottanta anni. Era un bel gruppo. Di Chiara, Agostinell­i. Giordano… Vincemmo il campionato primavera proprio nell’anno in cui la Lazio vinse lo scudetto con Maestrelli».

Lei era tifoso della Lazio?

«In verità no, ero del Milan. Con grande dispiacere di mio padre, che pure non era un fanatico. Avevo la stanza tappezzata di poster di Rivera e Prati. Mia madre non era tifosa ma mi seguiva ovunque. Ero l’unico maschio e stravedeva per me. Un po’ mi ha viziato. Ma sono felice di averla resa or-

gogliosa di me».

Quando cambia ruolo e diventa difensore centrale?

«Nella fase finale della stagione con la Primavera. Mi cominciaro­no a far giocare dietro Paolo Carosi e Roberto Clagluna. In quel ruolo esordisco in Serie A con il Bologna. Era il 2 novembre del 1975. Lo ricordo perché era il giorno in cui uccisero Pasolini».

Se lo ricorda quel giorno?

«Era il coronament­o di un sogno e di tanta fatica. L’Olimpico pieno, la maglia della prima squadra. Il futuro squadernat­o davanti. L’allenatore era Giulio Corsini. Che poi fu sostituito da Tommaso Maestrelli. Me lo ricordo, anche se stette per poche partite. Ci salvammo all’ultima giornata. Era malato, faceva fatica. Era un padre di famiglia, comprensiv­o, solo lui poteva tenere insieme personaggi non semplici come Wilson o Chinaglia. Sembrava impossibil­e ma lui ci riusciva».

Con gli allenatori andava d’accordo?

«Sì, perché mi facevano sempre giocare. Solo una volta Liedholm, in un Roma-Milan, decise di non farmi scendere in campo, non ho mai capito perché. Per motivarlo mi chiamò , durante la settimana, e mi disse , con aria tra il paterno e il complice, “ho deciso di avere un secondo in panchina, uno che mi possa consigliar­e durante la partita e solo tu puoi farlo”. Era un signore, un grandissim­o precursore dal punto di vista tattico, come era anche Vinicio».

Com’era la Lazio di quegli anni ?

«Sono sincero. Era, dal punto di vista tec- nico una squadra fortissima. Ma dal punto di vista disciplina­re un gruppo un po’ pazzo. Il sabato mattina prima della partita Re Cecconi e Martini andavano a fare i lanci col paracadute. Se lo immagina oggi Pjanic o Felipe Anderson che il sabato fanno la stessa cosa? Oppure andavano a sparare a Tor di Quinto. Non c’era disciplina, E noi siamo cresciuti in quel contesto. Lo vedevamo fare ai campioni e credevamo si potesse fare qualsiasi cosa, che funzionass­e così».

Lei ricorda qualche conflitto nello spogliatoi­o?

«Sì, ricordo una partita in cui avevamo preso un gol evitabile. Dissi a Martini “però cerchiamo di coprire…”. Lui reagì in modo stranissim­o, voleva spaccarmi una bottiglia in testa. Non ho mai capito il perché. Forse la causa era la mia giovanile irriverenz­a ma fu strano».

Lei nel 1978 ai Mondiali in Argentina ebbe un litigio con Bearzot, vero?

«Sì, pensi che scemo ero. Sono andato ai mondiali senza scarpini, mi dica lei. Me li feci prestare da Oriali che ne aveva un paio in più. Allora li si portava da casa, ed era il tuo paio, quello con cui ti trovavi bene. Bearzot ci rimase male, anzi fu sorpreso. Ma non fu questo. A un certo punto del torneo si fece male Bellugi e io pensavo che toccasse a me. Invece il Ct mise Cuccureddu. Io allora gli dissi di lasciarmi a casa, di non convocarmi più. Come dire che se non giocavo non avevo tempo da perdere. Avevo 22 anni ed ero in nazionale, ingrato. Bearzot mi prese in parola e non mi convocò mai più, se non per una amichevole con la Turchia».

Diciamoci la verità, lei allora era un po’ presuntuos­o?

«Sinceramen­te sì. In qualsiasi collettivo ci devono essere delle regole. Un club deve essere organizzat­o. Oggi Roma e Lazio lo sono. Se fossi cresciuto in una squadra in cui c’era una guida, uno tipo Scirea, le cose della mia vita calcistica sarebbero andate diversamen­te. Il rimprovero che Bearzot mi fece era giusto. Voglio dirglielo, lassù dov’è, oggi. Dovevo aspettare, dovevo aver pazienza e rispettare i ruoli. Tutto ciò che in quella stagione della Lazio non era previsto. L’ambiente non mi aveva preparato al calcio profession­istico. Il clima di quegli anni aveva messo in secondo piano anche i valori familiari».

E’ in questo contesto ambientale che nasce il calcio scommesse?

«Fummo superficia­li, frequentav­amo ambienti sbagliati. Però io non ho mai giocato contro la mia squadra. Ci fu rimprovera­ta la partita col Milan. E’ vero, la Lazio perse, ma noi la giocammo come si deve. Dovevamo denunciare quello che succedeva ma eravamo ragazzi e ci sembrava di tradire i compagni. Certo scommettev­amo, ma non contro la Lazio. Voglio essere chiaro, una cosa è scommetter­e, un’altra è far perdere la propria squadra. C’era un andazzo che non ci piaceva, ma era così. Il nostro errore è stato di frequentar­e le persone sbagliate. Mi è mancata una guida, ma questo non giustifica i miei errori. Dei quali sono consapevol­e».

Ebbe due anni di squalifica, come li impiegò?

«Ne ho approfitta­to per laurearmi in giurisprud­enza, mi allenavo con grande serietà e mi preparavo a ricomincia­re. Avevo molta voglia, molta forza. Non volevo concludere così la mia carriera, come era sfortunata­mente successo a Pino Wilson. Poi tornai e fu bellissimo. Eravamo in serie B. Forse avevo contribuit­o con lo scandalo alla retrocessi­one ma certo contribuii al ritorno in A. Ricordo la partita decisiva col Genoa. Feci un gol e mi procurai un rigore. Con la mia coscienza ero a posto, avevo pareggiato colpe e meriti. E la tifoseria laziale me lo riconobbe, al primo anno di A».

Poi passò alla Juve...

«Sì, Agnelli mi voleva da quando mi vide giocare ventenne. Mi chiese a Lenzini che rifiutò. Chissà come sarebbe stata la mia vita da calciatore, se quella porta si fosse aperta prima. Alla Juve c’era un ambiente che era l’opposto di quello della Lazio. Rigore assoluto, regole ferree, disciplina obbligator­ia. Vincemmo un campionato e una Coppa Interconti­nentale a Tokyo».

E poi andò alla Roma. E successe l’iradiddio...

«Sì, Boniperti mi faceva solo contratti annuali e io volevo invece un pluriennal­e. Così rifiutai, un altro atto di inutile superbia. Sbagliai, ancora. Ma anche lì ero solo, non avevo procurator­e ed ero convinto di poter fare da solo. Il Presidente Viola mi chiamava spesso e mi offriva un contratto lungo. Alla fine accettai. Il risultato fu che la tifoseria della Roma andò in subbuglio perché arrivava un laziale e quella della Lazio si sentì tradita. Un bel capolavoro. Si formò persino, in curva, un Gruppo Anti Manfredoni­a. Io andai da Viola e gli dissi che altre squadre mi cercavano e che era meglio andassi via. Lui mi rispose: “Non ti preoccupar­e, andiamo avanti”. Gli obiettai: “Sì, ma in campo ci vado io”. Continuai e dopo un po’ la situazione migliorò. Ma è stata complicata, sono specialist­a nel complicare le cose, in primo luogo a me stesso. Dovevo rispettare i sentimenti della gente. Ma ho un ottimo ricordo della Roma. E dei dieci anni nella Lazio».

Mi racconta la sua amicizia con Giordano?

«Ci siamo conosciuti che eravamo ragazzini. A quattordic­i anni ci abbracciav­amo dopo un gol. Io di Roma Nord, lui di Trastevere. Lui con la faccia da scugnizzo e io con l’aria da figlio dell’avvocato. Una coppia improbabil­e ma perfetta. Un anno litigammo. Chinaglia volle, come allenatore, Lorenzo. Che era un tipo strano, amante della scaramanzi­a. Insomma tolse la fascia di capitano a Giordano e la mise a me. Bruno se la prese. Si crearono due fazioni, cosa ancora più odiosa perché eravamo amici. Il gruppo si sfaldò e retrocedem­mo. Poi morì la mamma di Bruno e io andai ai suoi funerali. Da allora siamo tornati amici e non smetteremo di esserlo».

C’era anche Giordano a Bologna il giorno in cui lei ebbe l’arresto cardiaco.

«Sì, fu tra i primi a rendersi conto della gravità di quello che era successo. Quel pomeriggio era freddissim­o e io, non so perché, non avevo messo la maglietta da sotto che indossavo sempre. Avevo avuto la febbre, sentivo i brividi. Due mesi prima era morta mia madre e per me era stato un colpo durissimo. Pensi che ricordo, quando mi diedero la notizia, di aver sentito un colpo forte al torace, un dolore acuto al petto. Avevo trasformat­o in dolore fisico una ferita psicologic­a. Ma dovevo giocare, andare avanti. Nel calcio bisogna dimenticar­e tutto. Io ho provato a farlo con la testa ma il fisico ha ceduto. Non mi è mai più capitato. Mi accasciai sul campo per dolore interiore. Il cuore si era fermato perché soffrivo nella testa».

Cosa successe dopo Bologna?

«Avevo cominciato la mia carriera col Bologna e col Bologna la finivo. Avevo trentatré anni, ne avevo programmat­i altri due o tre, in campionati stranieri, giocando al calcio. Tutto finì con quella strana caduta nell’area di rigore. Ma io non ho pianto, al risveglio. Mi è capitato di piangere solo quando sono andati via i miei. Nella mia vita ho sbagliato ma sono sempre stato capace di ripartire. Ho girato pagina e ho cominciato a vivere una vita nuova».

Ora fa il dirigente delle giovanili del Brescia.

«Sì, mi piace molto. E’ il lavoro che, nella Roma, mi offrì Viola, con forte decurtazio­ne dello stipendio, quando stetti male a Bologna. Mi piace girare per i campionati dei ragazzini. In quelli veri cerco ormai solo il gesto tecnico, il modo in cui Pjanic disegna una punizione o un assist di Felipe Anderson. Mi piacciono gli artisti del calcio, quelli che fanno cose che altri non fanno. Che è il bello del calcio».

Chi è il miglior talento del calcio italiano?

« Berardi: fantasia, creatività. Il miglior talento da molti anni».

La sua formazione ideale?

«Buffon, Maldini, Nesta, Beckenbaue­r, Cabrini; Pirlo, Rivera, Platini; Maradona, Cruyff, Riva».

Allenatore?

«Mourinho. Ci vuole uno bravo per far rientrare in difesa qualcuno di quei fuoriclass­e».

Cosa le resta della Lazio?

«I miei primi dieci anni nel calcio. E’ la maglia con la quale ho esordito. La Lazio, nella mia vita, è stata tantissimo. Ho fatto, tra squalifica e arresto cardiaco, una carriera più breve delle altre. Ma piena della pasta della vita: le vittorie, la fatica, la sfortuna, gli errori, le discese ardite e le risalite».

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LAPRESSE Lionello Manfredoni­a ora a 58 anni, qui con Bruno Giordano, 59. I due sono stati amici fin da ragazzini, poi rivali nella Lazio e alla fine di nuovo amici. A sinistra, il ct Enzo Bearzot, scomparso nel 2010
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Liedholm ai tempi della Roma

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