Corriere dello Sport (Roma)

«Ho ammirato Platini e giocato con Baggio Totti? Grande stima»

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Perché scelse proprio quel paese?

«Cercavo un posto per giocare che non fosse l’Italia o l’Europa, che non mi facesse vivere quello che già avevo vissuto. In Australia mi proposero di aiutarli a cambiare il calcio, che in pochi anni è infatti passato da quinto sport nazionale a secondo o terzo. Ma guardi che era un campionato vero. In Australia menano, corrono, giocano vero calcio. Ma c’era anche una ragione personale, esistenzia­le. Volevo vivere in un mondo che non conoscevo. Lì è tutto diverso: la lingua, il fuso orario, è estate a dicembre, si sta sotto l’equatore e non sopra, persino le macchine si guidano a destra. Volevo scoprire, imparare. La stessa cosa è stata con l’India. Dovevo essere una specie di ambasciato­re del calcio e contribuir­e a far conoscere meglio anche lì il gioco più bello del mondo. E quando ero in questi paesi, mi creda, guardavo il campo. Ma i miei occhi cercavano anche di aiutarmi a capire altre culture, altri mondi. Mi piacciono i progetti e, di più, quelli innovativi».

Lei ora fa il commentato­re a Sky. Di allenare non ha mai avuto voglia?

«Tre anni fa avrei detto di no, senza dubbi. Ora ci ragiono. Lo sto analizzand­o. E’ un lavoro complesso, molto affascinan­te, che consente di vivere il calcio con una visione. Sia chiaro, non mi sono iscritto a nessun corso. Però se ieri avrei detto no senza alcuna esitazione, ora è per me motivo di riflession­e».

Quali sono le doti che deve avere un buon allenatore?

«Io ho lavorato, più a lungo, con tre grandi: Capello, Ancelotti, Lippi. Con Marcello abbiamo vinto tutto, insieme. In dieci anni scudetti, Champions, Interconti­nentale e poi un mondiale. Un rapporto speciale. E mi sono convinto, vivendo con loro, che le doti essenziali siano una grande intelligen­za, umiltà e una infinita pazienza».

Già, lo vediamo in queste settimane, un allenatore se vince, con la sua squadra, una partita è un genio. Se la domenica successiva perde è un cretino da cacciare. Perché è tutto così fragile ed emotivo in Italia?

«Sul calcio c’è tanta pressione. Tutti hanno necessità di dire la loro. Siamo portati a cercare risposte sul breve, solo sul breve. Programmia­mo solo sul breve. E per questo navighiamo sull’onda di sbalzi di umore repentini. In una settimana, se giochi tre partite, puoi essere genio, cretino, genio o viceversa. E sei la stessa persona. E guardi che giocare spesso fa bene. Se perdi, hai subito l’occasione per risalire. E questo conta, nel nostro calcio emotivo».

Si ricorda partite vissute nello spogliatoi­o con grande tensione?

«Più di una. In nazionale rammento i mondiali del Giappone e gli europei del 1996. C’è sempre tensione nei grandi appuntamen­ti e poi quelli furono sfortunati. Agli europei perdemmo la seconda partita e tutto diventò difficile. Con Sacchi c’era sempre un clima teso e concentrat­o. Si finiva col vivere il torneo con stress. Nella Juve ci poteva essere tensione anche negli allenament­i: ma noi ci dicevamo che in campo bisogna mettere tutto, il buono e il cattivo. Spesso uscivano bisticci e incomprens­ioni che si potevano regolare anche solo spiegandos­i o urlandosi dietro qualcosa. Ma le devo dire che anche le tensioni, normali in un gruppo di ragazzi che lavora insieme, non hanno mai prodotto episodi di scarsa profession­alità».

Qual è la partita che ricorda con maggior piacere?

«Le dovrei dire, ovviamente, la finale dei Mondiali. E quella lo è davvero, per tutto quello che successe dopo i rigori e il fischio finale. Ma come partita, nel senso di calcio giocato, quella più intensa, travolgent­e, fu la semifinale con la Germania. Quei supplement­ari, il gol di Grosso e poi il mio, al termine di un’azione collettiva bellissima. Stavamo battendo una squadra fortissima, in casa sua. Forse quella sera capimmo che potevamo farcela».

Quel gol fantastico che lei fece ai tedeschi fa pensare a quello che invece sbagliò con la Francia, in quella partita stregata degli europei del 2000. Era nella stessa posizione, a sinistra appena dentro l’area. E se Lehmann ancora cerca di capire come lei ha fatto a mettere la palla nell’angolo opposto alto, invece Barthez si chiederà ancora quale amuleto abbia funzionato perché un giocatore come lei lo graziasse. Se lo perdona?

«Io non mi perdono mai nessun errore. E quelli mi pesarono molto. Alla fine della partita ero a pezzi. Fortuna che sei anni dopo mi sono fatto perdonare. Ma vede com’è strano e irrazional­e il calcio? David Trezeguet segnò, in quella finale, il golden goal che assegnò la coppa alla Francia. Sei anni dopo fu lui a sbagliare il rigore decisivo per la vittoria nei mondiali. Il destino è beffardo, strano, sorridente».

Mi mette in ordine di grandezza calcistica Maradona, Baggio, Platini, Pelè?

«Allora: Pelè io non l’ho visto giocare. Anche se lui vide giocare me in una partita dell’Under 17 a Montecatin­i. Non ho visto neanche Maradona, se non in tv. Platini, per me che sono juventino da bambino, era un mito che camminava. Con Baggio ho giocato. Era un fuoriclass­e, un giocatore e una persona di grande qualità».

Pensi che se io dovessi dire con quale di questi leggendari numeri dieci c’è, per lei, più somiglianz­a, direi proprio Baggio. Stessa timidezza, riservatez­za. Ma stessa luce negli occhi, malinconic­a e intensa. E stessa poesia, nel giocare. Sbaglio?

«No, non sbaglia affatto. Forse concepiamo il calcio allo stesso modo. E sono felice che, nella memoria sua come di tanti altri appassiona­ti di calcio, i nostri nomi siano uniti da un ricordo dello stesso tipo».

Lei ha sempre avuto una forte sensibilit­à per gli altri, si è impegnato per molte cause sociali.

«Quando sei in vista, è una fortuna esserlo, hai dei doveri. Io fui molto toccato da una vicenda personale, la morte di mio padre. E da allora sono impegnato a sostegno dell’Associazio­ne Italiana per la ricerca sul cancro. Io sento la responsabi­lità di aiutare gli altri. In due modi: il primo è mettersi a disposizio­ne, promuovere il lavoro di chi fa del bene, contribuir­e alla raccolta delle risorse per il loro lavoro. Il secondo è più personale, privato. Non si fa con le telecamere e i microfoni. Si fa per se stessi. Per star bene con se stessi. E l’unico modo per essere interiorme­nte in armonia è dedicare una parte della propria vita agli altri. Le dico anche una cosa in più: per me questo significa anche fermarsi un minuto in più per fare una foto con un tifoso o per firmare un autografo. Per te è un secondo, per lui è un momento di gioia. Le assicuro che non per tutti è così. Ci dobbiamo abituare alla gioia di condivider­e».

Ha citato suo padre. Personalme­nte ricordo con commozione la sua dedica a lui del gol con il Bari, subito dopo la sua morte.

«Aveva 61 anni. Era stato importante, per me. Di quel momento non ricordo nulla. L’ho rivisto in television­e, quel gol. E’ del tutto diverso da come mi sembrava, nella memoria. Io chiesi di giocare subito, dopo i funerali. Ancelotti e i miei compagni furono fantastici. Non mi ero allenato, ovviamente. Ma entrai in campo e segnai. Era quello che mio padre avrebbe voluto facessi. Che non mi piegassi, reagissi, facessi il mio lavoro».

Ha detto che è stato importante, quale insegnamen­to le ha lasciato?

«Questa è la domanda più difficile. Mio padre era un uomo molto riservato, molto silenzioso. Faceva i fatti. La sua morte è arrivata in un periodo difficile, dal punto di vista profession­ale, per me. Avevo avuto un grave incidente al ginocchio, facevo fatica a tornare a giocare ai miei livelli, vedevo ogni difficoltà come un macigno. La nascita e la morte azzerano e riportano alla realtà. Ti rendi conto che un dribbling non riuscito non è una montagna insormonta­bile ma un montarozzo di sabbia e un gol non fatto non è un fiume in piena ma un ruscello nervoso. Da allora il mio rapporto con il calcio e il suo peso nell’equilibrio della mia vita è cambiato, si è fatto più maturo».

Torniamo ai montarozzi e ai ruscelli, anche se è difficile. Le voglio citare due momenti non ameni della sua carriera. L’arbitro Moreno e la sconfitta sotto il diluvio a Perugia.

«Sinceramen­te mi viene da ridere a pensare che Moreno, tre anni dopo, fu arrestato per spaccio di cocaina. Mi dispiace perché quella era una nazionale fortissima e avremmo potuto vincere quel mondiale se quel sedicente arbitro, un tipo da spiaggia, non avesse cambiato il destino del torneo. A Perugia era chiaro che non si poteva giocare dopo un’ora e mezza di sospension­e, ma così andò. Però bisogna superare tutto questo. Altrimenti si rimane aggrappati alle colpe di qualcun altro. Diventano scuse facili e rassicuran­ti. Se non sei stato più forte dell’errore altrui comunque ti devi guardare dentro. Bisogna alzare lo sguardo, per vedersi meglio dentro».

Con Totti che rapporto ha?

«Un rapporto di grande stima. Non ci mandiamo gli sms tutti i giorni. Non siamo i tipi. Siamo molto diversi ma per certe cose del carattere molto simili. Le posso dire una cosa: entrambi avremmo voluto e dovuto giocare di più insieme, in nazionale».

Fu difficile la scelta di seguire la squadra in serie B?

«Sarebbe stato difficile non farlo. Ero il capitano, ero tifoso. La Juve mi aveva dato tantissimo. John Elkann mi chiamò e io gli dissi che poteva contare su di me. Non ho mai avuto ripensamen­ti e non ho rimpianti per non essere andato a giocare altrove. Le aggiungo che tornare in A e poi rivincere uno scudetto sono state le gioie maggiori della parte finale della mia carriera».

Chi è stato il collega al quale si è più affezionat­o e quale quello con cui ha avuto più conflitti?

«Pessotto. E’ un mito. Una persona di una correttezz­a incredibil­e. Un uomo fatto di rispetto per gli altri, di dedizione. Ha qualità umane rare. Io sono un tipo chiuso, sto sulle mie, per timidezza. Ma per lui ho davvero grande affetto. Ho litigato con molti, in campo. Mi menavano mica poco. E poi dicevano che erano entrati sulla palla. Uno con cui non andavo d’accordo era Samuel. Ma all’ultima partita che abbiamo giocato ci siamo abbracciat­i e salutati con amicizia. Tanto per ricordarci che il calcio, in fondo, si chiama “gioco del calcio».

Gianni Agnelli disse che se Baggio era Raffaello lei era Pinturicch­io. Le pesò?

«In primo luogo mi faccia dire che l’Avvocato era un’icona mondiale. Era un uomo di rara intelligen­za e di fenomenale senso dell’umorismo. Capiva di calcio, come pochi, era tre passi avanti a tutti. Quanto a Pinturicch­io le devo dire la verità. Quando lo disse la prima cosa che feci fu andare a cercare una encicloped­ia. Poi studiai la figura del pittore. E pensai quello che penso oggi. Era una definizion­e super azzeccata per un ragazzo di talento di soli 21 anni, come ero allora».

Per tirare così bene le punizioni ci vuole più talento o più lavoro di allenament­o.

«Io credo più talento. Prima di tutto talento. E desiderio, tanto desiderio. Quando ero piccolo, e già maniaco del calcio, mi ero messo in testa di diventare bravo a calciare le punizioni. E mi allenavo. E anche quello serve, sia chiaro. Ma se i piedi non sono giusti, mi creda, non c’è nulla da fare».

Chi è oggi il più bravo a calciarle?

«Per me ancora Pirlo. Ha una incredibil­e varietà di colpi.»

Che impression­e fa essere la copertina di un videogioco?

«Fichissima. Molto bello. Ero orgoglioso che milioni di bambini sapessero chi ero e giocassero con me. Oggi si sa tutto dei calciatori, che macchina usano, quanto guadagnano. Ma il calcio, per i bambini, è ancora, per fortuna, la magia del gioco. Ed è a quello che si appassiona­no».

Chi vincerà il campionato?

«Sarà il più bello degli ultimi anni. Tutte le squadre alternano risultati, tutte cadono e tutte risorgono. Ce ne sono almeno sei, che possono contenders­i il campionato. Voglio dirle che sono felice dei risultati di Paulo Sousa. E’ sempre stato un ragazzo molto intelligen­te, che sa ascoltare».

Mi dice anche lei la sua formazione ideale?

«Guardi, gliene dico addirittur­a due. Tutte con giocatori degli anni ottanta. Che secondo me è stato il periodo più bello della storia del calcio. La prima è tutta di stranieri. Pfaff, Gerets, Fernandes, Beckenbaue­r, Eder; Falcao, Socrates, Tigana; Maradona, Platini, Van Basten. La seconda è facile. E,’ tutta intera, la nazionale italiana del 1982. Avevo otto anni e impazzii per quella vittoria».

Quel bambino che vedeva Zoff alzare la coppa pensava che un giorno sarebbe toccato a lui diventare campione del mondo?

«Se vuole la risposta ufficiale le dico di no. Ma la verità è che sì, lo pensavo, lo volevo, lo sentivo. Vidi la partita in una fabbrica di tappezzeri­e vicino a casa mia. Mentre tutti si abbracciav­ano e urlavano io, in cuore mio, lo sapevo, che un giorno sarebbe toccato a me».

Alex e Michel «Tifo per la Juve da quando ero piccolo e per me lui è come un mito che cammina»

Alex e Roby

«Uomo e giocatore di qualità. Abbiamo una idea di calcio simile. Mi piace che mi accostino a lui»

Alex e Francesco

«Io a Torino, lui a Roma, avremmo voluto e dovuto giocare più insieme con la nazionale»

Il papà

«Importanti­ssimo La sua morte ha cambiato il mio modo di sentire il calcio e la vita»

Il collega amico

«Pessotto, uomo ricco di rispetto per gli altri e molto corretto. Per lui nutro affetto»

L’avversario duro

«Litigi? Con tanti e con Samuel più di tutti. Ma alla nostra ultima sfida l’ho abbracciat­o»

L’Avvocato

«Icona mondiale esperto di calcio Pinturicch­io? Presi l’encicloped­ia... Aveva ragione!»

Le punizioni

«Serve più talento che allenament­o Se non hai il piede dove vai? E’ ancora Pirlo il numero uno»

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LAPRESSE 13 maggio 2012, Del Piero segna il gol numero 290 con la maglia della Juventus contro l’Atalanta e saluta uno stadio in piedi ed emozionato quanto lui: la sua storia bianconera finisce lì
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ANSA E LAPRESSE Due coppe nel cuore: l’Interconti­nentale nel ’96 con Boksic alla Juve e il Mondiale 2006 con Cannavaro
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Alex oggi: opinionist­a su Sky

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